Recupero qui alcune considerazioni riguardanti l’anglofilia di Adolf Hitler perché utili ad approfondire la polemica contro l’attuale avanzata delle “estreme destre” in Europa, la cui irritante inanità porta a sospettare i soliti trucchetti e giochetti delle solite camarille e consorterie poco gentili (lato sensu).
Quando si discute della adorazione acritica da parte del Führer per la Perfida Albione (vero e proprio Geheimnis von Pulcinella della storiografia che pochi studiosi hanno avuto il coraggio di approfondire), infintamente più interessante di qualsiasi dibattito sul “nazismo esoterico”, si affronta il vero “cuore di tenebra” dell’hitlerismo, ovvero un’esagerata passione per l’imperialismo britannico assimilata attraverso disdicevoli letture giovanili e poi concretizzatasi in un “pensiero magico” -quello sì- che ingannò il Führer su un’inesistente solidarietà razziale tra il Reich e l’Impero Britannico, la quale umiliò tutta la scienza geopolitica tanto millantata dalle scuole di regime.
Alla fine pare che uno dei pochi storici ad aver affrontato l’argomento con onestà intellettuale sia stato Sir Basil Liddell Hart nei classici German generals Talk (1948) e The Other Side of the Hill (1951). Le sue tesi, avvalorate da testimonianze dei più importanti generali tedeschi, mi sembra si avvicinino di molto ad afferrare il “segreto” di Hitler.
Come nota Franz Halder (1884–1972) capo di stato maggiore dell’esercito fino al settembre 1942 (quando si dimise proprio per disaccordi col Führer), «Hitler era un mistico e inclinava a sottovalutare tutte le regole della strategia, anche quando non le ignorava. […] In lui la riflessione mistica prendeva il posto delle considerazioni di tempo e spazio dell’attento calcolo delle proprie forze in rapporto con quelle del nemico».
È una sfumatura importante della personalità dell’uomo, che Halder stesso ricondurrà alla famigerata anglofilia:
«Il Führer è grandemente perplesso a causa del persistente rifiuto della Gran Bretagna di negoziare la pace. Egli (come noi) vede il motivo di tale atteggiamento nella speranza britannica di coinvolgere la Russia nel conflitto, e perciò dà per scontato di dover ricorrere alla forza per costringerla alla pace. In realtà, però, ciò va contro le sue intenzioni. Il motivo è che una sconfitta militare della Gran Bretagna determinerà la disintegrazione dell’Impero Britannico. Ciò non sarebbe di alcun beneficio per la Germania».
Ancora più esplicito -e impietoso- il generale della Wehrmacht Günther Blumentritt (1892– 1967), che offre a Liddel Hart un resoconto delle dichiarazioni di Hitler durante al visita al quartier generale di von Rundstedt e Charleville:
«Hitler era di ottimo umore, e ammise che il corso della campagna era “decisamente un miracolo” e ci espresse l’opinione che la guerra sarebbe finita entro sei settimane. Dopo di che aveva intenzione di concludere un accordo ragionevole con la Francia, e allora vi sarebbe stata via libera per un accordo con la Gran Bretagna.
Poi ci lasciò sbalorditi parlando con ammirazione dell’Impero Britannico, della necessità della sua esistenza e della civiltà che la Gran Bretagna aveva apportato nel mondo.
Osservò, scrollando le spalle, che la creazione del suo Impero era spesso avvenuta con mezzi crudeli ma, aggiunge, “dove c’è da piallare, ci sono trucioli che volano”. Paragonò l’Impero Britannico alla Chiesa Cattolica, dicendo che l’uno e l’altra erano elementi essenziali per la stabilità del mondo.
Affermò che dalla Gran Bretagna voleva solo il riconoscimento della posizione della Germania sul continente. La restituzione alla Germania delle colonie perdute sarebbe stata desiderabile, ma non essenziale; egli avrebbe persino offerto alla Gran Bretagna di appoggiarla con le armi se si fosse trovata in difficoltà in qualunque parte del mondo. Osservò ancora che le colonie erano in primo luogo una questione di prestigio, poiché in caso di guerra non potevano essere difese e ben pochi tedeschi potevano stabilirsi nei tropici.
Concluse dicendo che il suo scopo era di far la pace con la Gran Bretagna su una base che la Gran Bretagna avrebbe considerato col suo onore e quindi accettabile».
Blumentritt fu uno di quei generali che «da soldati, volevano dare il tocco finale alla vittoria e furono sconvolti dal modo come ne vennero impediti», accogliendo con angoscia il rifiuto di Hitler di annientare gli inglesi a Dunkerque:
«L’ordine di arresto era stato dato per ragioni che trascendevano di gran lunga le considerazioni di carattere militare e faceva parte di un progetto politico per rendere più facile il raggiungimento della pace. Se l’esercito britannico fosse stato catturato a Dunkerque, poteva darsi che il popolo britannico ritenesse che il suo onore aveva sofferto una macchia che bisognava assolutamente cancellare. Lasciandolo fuggire, Hitler sperava di conciliarsi con gli inglesi».
Questa chiave di lettura, come si notava perennemente trascurata, potrebbe forse aiutare a capire anche perché il Mediterraneo non fu “blindato” da Gibilterra a Malta (Liddell Hart si spinge solo a evocare la “sfiducia di Hitler verso la Marina italiana”) o perché la Bismarck, orgoglio della Kriegsmarine, sia stata praticamente “abbandonata” a una fine disonorevole. Sicuramente è indispensabile a comprendere come il rifiuto di Hitler di accettare che gli inglesi non avessero alcuna intenzione di spartirsi il mondo con Berlino, né di lasciargli fare in Europa quello che loro avevano fatto in India, abbia poi portato al percorso obbligato dell’invasione della Russia.
Lo stesso Liddell Hart, già nell’agosto del 1941, aveva evidenziato le analogie fra la campagna napoleonica e l’invasione hitleriana, intuizioni poi confermate a posteriori dalla testimonianza dell’ufficiale dell’OKW Walter Warlimont (1894–1976):
«Hitler si trovò esattamente nella stessa situazione in cui s’era trovato Napoleone. […] Entrambi credevano che sarebbe stato possibile costringere la Gran Bretagna a scendere a patti con la potenza dominante del continente europeo se gli inglesi avessero visto svanire la prospettiva di contare, sul continente, sull’appoggio di un “braccio secolare” alleato».
Ad acuire la disfatta e fare da contraltare al pregiudizio positivo verso gli inglesi (che a dir la verità il Bonaparte non nutriva) c’era una preclusione razzista nei confronti dei russi. Ancora Warlimont: «Può darsi che [le considerazioni di cui sopra] siano state rafforzate da una fatale sottovalutazione della potenza militare e del potenziale bellico russo». Da tale prospettiva possiamo ancora ricordare, senza naturalmente alimentare la leggenda della follia hitleriana, che alla fine il Führer tentò anche di mascherare le ragioni strategiche, politiche e geopolitiche dell’Operazione Barbarossa con la cortina fumogena del misticismo e della mitologia.
In realtà però il suo reiterato rifiuto ad adottare una mentalità da Delenda Carthago nei confronti di Albione condusse il Blitzkrieg nel vicolo cieco prima della Repubblica di Vichy (avamposto tutto sommato trascurabile in rapporto al dispiegamento di forze messo in campo per impossessarsene) e poi della campagna di Russia, che gettò alle ortiche un secolo di scienza militare tedesca da Clausewitz ad Haushofer.
Per non maramaldeggiare sul cadavere di Hitler abbiamo evitato di evocare i passaggi più imbarazzanti del Mein Kampf nonché delle famigerate Conversazioni a tavola, tuttavia le testimonianze confermano la sua insopprimibile anglomania: il modello da applicare all’Europa continentale era proprio quello dell’Impero Britannico (secondo solo al Sacro Romano Impero…), con l’Ucraina come “nuovo impero delle Indie” («Agli ucraini forniremo fazzoletti, collane di vetro e quel che solitamente piace a un popolo coloniale») ed eventualmente qualche concessione agli italiani in Africa (a patto sempre di seguire il modello superiore “sassone”).
La storia non si fa con i “se” e perciò è impossibile evocare uno scenario alternativo: eppure l’inglorioso destino del più “vasto impero della storia” (cosa che sarebbe dispiaciuta a Hitler, il quale a suo tempo già si doleva che i trionfi dell’Asse avrebbero condotto allo “stato di anarchia” nelle ex colonie inglesi…) , per giunta a seguito di una vittoria, ci fa pensare che un minimo di contezza strategia avrebbe forse cambiato completamente l’esito della guerra.
In finale si può osservare come una figura ambigua quale Hitler sia potuta giungere al potere solo nel momento in cui le potenze vincitrici nella Grande Guerra smantellarono lo Stato Maggiore Generale tedesco, portando indirettamente a una “plebeizzazione” dell’esercito, che permise a sua volta a un “figlio della sconfitta” di giungere al potere. Questo però sarebbe davvero infierire: purtroppo -cioè per fortuna– è andata così.