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Bastano davvero quattro scappati di casa per mettere in ginocchio la Russia?

L’attacco al Crocus City Hall del 22 marzo 2024 ha purtroppo rivelato una triste verità: la Russia è molto più fragile di quanto non appaia. Prima di discutere di ciò, vorrei tuttavia spendere due parole sull’ennesimo punto basso toccato dal circuito politico-mediatico occidentale, che non è riuscito a parlare dell’attentato se non da una prospettiva complottista (scomodando la formula -peraltro senza saperla pronunciare- false flag), accusando Vladimir Putin di aver organizzato un auto-attentato perché “sono cose che fa di solito” (argomentazione del corrierista medio).

È questo probabilmente il motivo più forte per cui i cittadini delle democrazie liberali si rifiutano anche solo di immaginare l’eventualità di dover combattere per difendere tali democrazie: l’assoluta mancanza di coerenza, che alla fin fine sfocia in pura e semplice idiozia. Per ogni evento che accade in Russia da quando Putin è al potere, dal terrorismo ceceno fino alla distruzione del Nord Stream, si è obbligati a inventarsi un complotto ad hoc, a volte semplicemente rubando le argomentazioni dai tanto derisi “undicisettembrini”.

Passiamo però alle cose serie: gli attentatori sarebbero quattro tagiki facenti parte del famigerato “Stato Islamico” (ISIS), che all’occorrenza è diventato Isis-K, dove il K starebbe per la regione del Khorasan. Sarebbero lo stesso gruppo che attualmente sta combattendo una strenua guerriglia contro i talebani e che pochi mesi fa si sarebbe reso colpevole dell’attentato al mausoleo di Keran durante le commemorazioni del generale Qasem Soleimani, ma non è da escludere che questa branca dello “Stato Islamico” si attribuisca attentati compiuti da altri per simulare una pervasività inesistente.

In particolare, quando ci sono di mezzo mercenari dell’Asia Centrale, è gioco facile risalire a un qualche collegamento con l’Ucraina: nei vari siti che promuovono l’arruolamento nella “Legione internazionale” campeggiano del resto annunci indirizzati specificamente alle varie comunità etniche che componevano il vasto impero sovietico o che ancora fanno parte della Russia, tra le quali naturalmente non mancano i tagiki  (lo ha segnalato il portale readovka.news).

Per questo Putin, nonostante abbia ammesso la natura “fondamentalista” dell’attentato, ha potuto parlare di “supporto” ucraino, alludendo all’eventualità che Kiev possa aver coordinato la fuga degli assalitori preparando una “finestra” [okno] per consentir loro di attraversare il confine e ottenere rifugio nello Stato nemico.

Non so, a dirla tutta, a quale scopo il Presidente russo abbia voluto affermare tale tesi, considerando l’inutilità di trovare l’ennesimo casus belli nel momento in cui le ultime elezioni, trasformate in una sorta di “referendum” sulla guerra, gli hanno dato “carta bianca” al riguardo. Per la cronaca, Putin ha anche descritto l’attentano come un eccidio paragonando perpetratori e “pianificatori” ai nazisti, che massacravano le popolazioni dei territori occupati a scopo intimidatorio (parallelismo pericoloso, perché sembra ammettere implicitamente che Mosca sia zona di guerra invasa dagli “ucronazi”). Da canto suo Zelenskij, con la tipica хуцпа, ha risposto affermando che se i russi non fossero stati troppo occupati a combattere in Ucraina avrebbero potuto sventare l’attentato.

Non vorrei che con tale mossa il Cremlino stesse tentando di nascondere le incredibili falle nel proprio sistema di sicurezza, talmente imbarazzanti da offrire appunto il destro ai complottisti istituzionali d’Occidente. Se ci fosse ancora una testa pensante tra i commentatori dell’anglosfera, prima di snocciolare lezioncine sul machiavellismo putiniano qualcuno avrebbe potuto preliminarmente interrogarsi su quanto un “auto-attentato” di tal fatta avrebbe potuto rafforzare una leadership appena galvanizzata dal trionfo alle urne. A palle ferme, si può agevolmente darsi una risposta: più che un “colpo da maestro” dei servizi segreti moscoviti, questo è disastro sotto ogni punto di vista.

Prima di tutto, per l’incapacità di leggere i segnali da parte degli odiati anglosaksy: è noto a tutti che due settimane prima dell’assalto (il 7 marzo) l’ambasciata americana aveva consigliato ai propri cittadini di non partecipare a eventi pubblici a Mosca affermando sul suo portale ufficiale di “valutare informazioni su piani imminenti di un attacco da parte degli estremisti a eventi di massa, inclusi i concerti”.

Facile, come fatto finora, sparare a zero sul giornalismo mainstream occidentale, ma anche la “controinformazione” da questa parte della nuova cortina di ferro non se la passa molto bene, se riesce a interpretare tale dichiarazione ufficiale riportata dal portale della US Embassy come una sorta di “firma” yankee.

Un conto se si trattasse di una comunicazione privata screenshottata da qualche “gola profonda” su Instagram e immediatamente presa per oro colato da post-gentisti e noncielodiconisti, ma qui si tratta di un avviso del quale avevano parlato tutti i principali organi d’informazione da una parte all’altra del confine, e che lo stesso Putin aveva interpretato come una “provocazione” e una “interferenza”, salvo poi presentare come un successo l’aver sventato un attacco contro una sinagoga di Mosca sempre da parte di questo ISIS-K (che all’occorrenza aveva arruolato due khazaki).

Il fatto stesso che l’FSB sia riuscito a prevenire un attentato a un tempio ebraico e non uno a una sala concerti russa (probabilmente organizzato con una logistica molto simile) non può non essere motivo di imbarazzo per l’entourage putiniano. Il quale per giunta ora propone una toppa peggiore del buco, ammettendo in sostanza che gli ucraini possono arrivare fino a Mosca arruolando con un semplice messaggio su Telegram quattro scalzacani per un pugno di rubli.

Non voglio nemmeno accennare al disastro diplomatico che si sta verificando con la nazione tagika, che fino alla liquidazione delle varie “compagnie private” (rappresentata simbolicamente dall’ingloriosa fine di Prigozhin) era tra i primi Paesi a fornire “carne da cannone” in Ucraina. Si aprirebbe un altro capitolo sulla fragilità del potere centrale russo e sulle difficoltà sempre più evidenti nel ripristinare l’antico prestigio imperiale, archiviando per sempre i metodi schizofrenici dell’Unione Sovietica.

Insomma, questa cosa non doveva accadere e la reazione obiettivamente impacciata di Putin rischia di acuire la percezione di un’insuperabile fragilità della nazione, che può permettersi di perdere centinaia di migliaia di soldati nelle trincee ma non un singolo russo lontano dal fronte. Quale beffa, per una tellurocrazia, farsi mettere in ginocchio da una “guerra ibrida” nel momento in cui sta vincendo materialmente il conflitto.

Voglio chiudere con una preghiera per le vittime di questo attentato e per tutti gli innocenti straziati dalla guerra, con l’auspicio che torni un minimo di ragionevolezza nei rapporti tra grandi potenze, allo stato d’attuale sempre più intenzionate, anche involontariamente, ad assumere l’infausto ruolo di Gog e Magog.

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