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Una lettura non complottista del “Golpe Wagner”

Anche l’insurrezione dei “wagneristi” è finita, come al solito, “alla russa”: nessuno ci ha capito nulla, tutti sono rimasti insoddisfatti e in generale ognuno ha mantenuto le opinioni che aveva in precedenza, indipendentemente da quanto accaduto. Dunque c’è chi pensa che la rodomontata di Prigožin sia stato l’ennesimo segnale della fine imminente del regime putiniano; chi invece è convinto che il Presidente russo stia vincendo una partita a scacchi nella quarta dimensione inventandosi un finto golpe per spostare i wagneristi più vicino a Kiev fingendo di esiliarli in Bielorussa; chi, infine, si è stancato del teatrino e spera che il conflitto finisca al più presto (anche con una guerra termonucleare, che è la posizione ufficiale dei miei lettori) affinché si possa finalmente tornare a discutere delle cose che contano (ipergamia femminile, delfini assassini ed effetti evversi dei vaccini).

La mia opinione personale è che quando parliamo di Russia forse diamo troppa importanza agli arcana imperii, adottando una prospettiva lato sensu “orientalista” nei confronti della politica di quel Paese. Paradossalmente, l’idea che il potere possa essere gestito solo tramite la disinformatsija e le maskirovki deriva meno dalla tradizione zarista che non da quella sovietica, edificata da “materialisti” tutt’altro che inclini al razionalismo e all’illuminismo, semmai veri e propri stregoni, specialisti della dissimulazione, gran maestri e superiori incogniti, decisi a importare nella Santa Madre Russia la convinzione che un impero possa esser amministrato solo attraverso l’inganno, in una rigida suddivisione tra verità essoterica (per il popolo, che sostenevano tanto di amare) ed esoterica (per l’élite rivoluzionaria).

Il mio intento sarebbe quello di offrire una lettura non complottista degli eventi, ma non vorrei passare dalla padella alla brace affidandomi ai rigidi teoremi della geopolitica: tuttavia, almeno in tale occasione, c’è forse più verità in essi che non in altre speculazioni intrise fino all’assudo del “senno di poi”. Partiamo da un dato di fatto: Prigožin stava diventando un personaggio scomodo sia per una enorme ambizione personale sia per la natura inedita, per una tellurocrazia, del dispositivo militare da egli offerto. In effetti, ragionando a palle ferme, è difficile anche solo immaginare che una compagnia militare americana possa imbastire un piano del genere contro Washington: con la Russia è invece accaduto l’impensabile proprio perché il suo destino è la iustissima tellus, e dunque dopo aver utilizzato la sua versione di contractors in Siria, Venezuela e Mali, era inevitabile dovesse portarseli vicino al confine.

Inserire il Gruppo Wagner nella tradizione russa non è così agevole come si pensa: paragonarli ai cosacchi è tanto assurdo quanto anacronistico, così come, per avvicinarsi alla nostra epoca, rapportarli ai ceceni, che non a caso sono stati inviati dal Cremlino a riprendere il controllo di Rostov quasi in una rappresentazione plastica della differenza che passa tra “compagnie di ventura” occidentali e russe.

Forse è da queste logiche obbligate che origina la difficoltà di comprendere appieno quanto è accaduto e sta accadendo: la possibilità che una compagnia militare privata per chiedere più munizioni o il cambio di un ministro si metta a marciare sulla capitale deriva probabilmente proprio dalla natura ibrida di tali combattenti, uomini dalla mentalità tellurocratica che devono agire come se lottassero per una talassocrazia, e di conseguenza invece di inscenare una versione aggressiva di una “protesta sindacale”, procedono per golpe militari e creazione di enclavi.

In questo mare di ambiguità, fa comunque piacere che emerga la figura di Lukashenko, che dalle nostre parti ha sempre ricevuto affetto e sostegno. Colgo l’occasione per chiarire definitivamente i dubbi sulla traslitterazione del suo nome (citando una risposta già data a un lettore tempo fa): “Lukashenka” sarebbe la pronuncia esatta (nonché la traslitterazione ufficiale dal bielorusso), mentre “Lukashenko” è la traslitterazione in russo, la quale però si pronuncia sempre con la “a” finale, e la varazione è dovuta solo al fatto che l’alfabeto bielorusso non ha la regola delle vocali non accentate (in pratica in russo una “o” non accentata diventa una specie “a”, tipo Dostojevskij che si dovrebbe leggere [dəstɐˈjefskʲɪj]). In bielorusso la traslitterazione è più fedele allo scritto per l’influenza della cultura occidentale (per qualche tempo la “Russia Bianca” adottò persino l’alfabeto latino, il łacinka). Io continuo a scriverlo (e pronunciarlo) “Lukashenko” perlopiù per questioni memetiche, con la consapevolezza di essere nel torto.

E, ovviamente, anche per dare una connotazione più virile al suo augusto nome, senza però voler seguire la demonizzazione “machista” occidentale (“Meglio essere dittatore che esser ghei”), che in realtà non appartiene nemmeno alla sensibilità di Lukashenko, il quale semmai, ai tempi in cui i regimi dell’Ovest introducevano misure draconiane per contrastare un virus, affermò apertamente di preferir passare per una “femminuccia” agli occhi del suo popolo piuttosto che militarizzare il Paese in modo ipocrita e subdolo.

L’onestà intellettuale del Nostro in effetti gli ha sempre impedito di camuffare gli strumenti repressivi con tonalità filantropico-sanitarie, preferendo invece affrontare i suoi nemici direttamente sul piano politico. Grazie dunque al caro Батька per aver risolto con bonario paternalismo la catfight fra Putin e Prigožin.

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