Fine Ramadan… e mo’ se magna

Vedo campeggiare su un autobus italiano (vorrei dire “milanese”, ma sarebbe consolatorio perché ormai il fenomeno è endemico in tutto il Bel Paese) questa singolare pubblicità di una multinazionale americana che invita gli immigrati marocchini dalle nostre parti a inviare soldini in patria (probabilmente l’unico luogo che potrebbero definire tale). Andando sul sito della multinazionale in questione scopro un’intera sezione dedicata alla questione Ramadan e al modo in cui gli stranieri possono trasferire denaro verso l’estero drenandolo dalle economie indigene.


L’islam comincia a rompermi i coglioni, sul serio. Partiamo però da lontano. Qualche mese fa avevo iniziato a fare con TikTok (tramite un profilo rigorosamente anonimo e neutrale) quello che anni fa feci con la tv satellitare, cioè immaginare come un visitatore extraterrestre avrebbe potuto delineare il profilo del “terricolo medio” solo attraverso i media.

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Ciò di cui mi resi conto tramite tale esperienza fu l’assoluta preponderanza della religione islamica a livello massmediatico. Un copione che si è regolarmente ripetuto con il social cinese: anche per questo, dopo aver “salvato” qualche video, ho deciso di interrompere la ricerca.

Al di là delle live sul ramadan, per restare in tema (in ogni caso qualsiasi pratica cristiana è pressoché assente dal TikTok), voglio segnalare, GIUSTO per la cronaca, dei tentativi di proselitismo da parte non solo di gruppi organizzati, ma anche di semplici immigrati (perlopiù magrebini o albanesi) che vorrebbero fare un po’ di daʿwa (ovvero “invitare” il prossimo a convertirsi alla vera fede).

A quanto pare la da’wa funziona pure sugli ultrasettantenni, e questo obiettivamente fa piacere:

Più controverse invece altre testimonianze, divulgati peraltro dalle stesse associazioni di cui sopra, in cui qualche imam sostiene che una donna musulmana non possa sposare un uomo non musulmano perché costui le ordinererebbe di “portargli una birra moretti, mangiare il maiale, uscire a ballare con lui, non mettersi il sacco nero sulla testa” (e siccome secondo l’islam una donna deve sempre obbedire all’uomo, ciò creerebbe difficoltà nelle interazioni).

Diciamo che è tutto un po’ così. Non voglio nemmeno tornare sulla questione Pioltello, assurda come qualsiasi discussione che comprenda maomettanesimo, istruzione pubblica e immigrazione (mentre in Francia sono avanti di trenta o quarant’anni, nell’ambito della degenerazione s’intende). Quello che mi domando è perché la fede islamica dei singoli immigrati sia stata trasformata in un’emergenza sociale dalla parte politica che ha passato gli ultimi secoli a combattere la religione come superstizione.

Può essere una considerazione tranchant e oscenamente boomerizzante, ma è un dato di fatto che queste masse di musulmani in palandrana accompagnati da mogli velate e bambini che saltano scuola (a meno che non vadano a Pioltellol, sic) siano frutto di un esperimento di ingegneria sociale pianificato da quella fazione che ha voluto utilizzarli come carne da cannone per una delle loro rivoluzioni culturali fallite. Voglio dire, nessun immigrato musulmano di per sé sentirebbe il bisogno di pregare, considerando la semplice eventualità che ha abbandonato una nazione islamica per meri motivi materiali, dunque commettendo un atto intrinsecamente empio da una eventuale prospettiva coranica (il buon Maometto era piuttosto esplicito sulla questione: “La terra di Allah non era abbastanza vasta da permettervi di emigrare?”, An-Nisa 4,97).

Serpeggia tuttavia questo identitarismo religioso che taluni sessantottini appassiti, modellandolo sul concetto decrepito di “coscienza di classe” in conformità ai loro paraocchi ideologici terzomondisti, pauperisti e cattocomunisti, hanno voluto fomentare negli stranieri di fede islamica quasi “costringendoli” a praticare un culto che avevano lasciato, forse con un sospiro di sollievo, ai rispettivi Paesi d’origine. Ora di anno in anno ogni città italiana, grande e piccola che sia, si riempie di gruppi sempre più numerosi di musulmani che celebrano la fine del Ramadan come espressione di un orgoglio etnico-religioso del quale obiettivamente nessuno sentiva davvero la mancanza.

A cosa è servito tutto questo, a parte far sentire il pelatone parapiddino di Cazzate sul Minchio o la gattara ossigenata di Carondimonio a Parigi, Bruxelles o New York? Ma non gli bastavano già l’onnipresente puzza di piscio, i cartoni di tavernello abbandonati per strada, un kebab ogni 5 metri e capannelli di maranza assortiti?

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