In questi mesi uno dei centri geografici della polemica sulla cosiddetta “islamizzazione” è diventato Monfalcone, comune in provincia di Gorizia dove la comunità bengalese è giunta a rappresentare circa il 30% dei residenti. Le cause di questo “record” sono da imputare principalmente alle leggi italiane riguardanti il ricongiungimento familiare e al sistema cantieristico locale, che ha privilegiato la manodopera straniera con il palese obiettivo di pagare meno gli operai.
Già questo dovrebbe tagliare la testa ai due tori della falsa dicotomia politica, cioè la sinistra terzomondista (=anarcotirannica) e buonista vs. la destra islamofobica (=filosionista) e cattivista. I bangla non sono venuti in massa nel capoluogo bisiaco né per arricchire culturalmente la classe operaia né per fondare un califatto, ma perché sobillati e costretti da un sistema globalista, tecnocratico e neofeudale.
La sinistra non ha il coraggio di dire una parola sulla questione dello sfruttamento, soprattutto nel momento in cui nello stesso Bangladesh i lavoratori del settore tessile stanno scioperando e protestando in massa per l’aumento del salario minimo mensile, lasciando parecchi morti per le strade. L’antirazzismo in tal caso è il miglior alleato dello schiavismo.
A livello di ipocrisia, la destra non è però da meno: posto che la polemica è scoppiata a livello nazionale nel momento in cui a Monfalcone è andata in scena una manifestazione pro Palestina alla quale verosimilmente avranno partecipato pochissimi bengalesi, l’idea che tutta la questione si possa ridurre allo “scontro di civiltà”, soprattutto se espresso in termini di “islamizzazione”, è a dir poco risibile.
Certo, capisco che per un leghista sembri piuttosto agevole evitare qualsiasi accusa di razzismo utilizzando l’espressione “cultura” invece che “razza” o “etnia”, oppure avere gioco ancor più facile approfittando della necessità di giustificare i crimini di guerra israeliani con l’accodarsi alle fatue “crociate” contro l’Eurabia e altre fantasticherie neoconservatrici che hanno avuto come unico risultato (paradossale, ma neanche troppo) la terzomondizzazione delle nostre città (perché “islamizzazione” è un slogan senza alcun senso, a meno di non esser convinti che un rapinatore, uno spacciatore o uno stupratore “cristiano” sia meno colpevole rispetto a un seguace di Maometto).
Ci sono vari elementi che hanno concorso a far nascere la “narrazione” sul fatidico “scontro di culture”: oltre alle manifestazioni pro-Palestina (parlando delle quali la stampa conservatrice ricorda la percentuale di musulmani presenti in città, senza però rendersi conto che l’anima delle proteste è stata probabilmente rappresentata più dai nordafricani che non dai bangla), ci sono le moschee abusive (sulle quali i leghisti, intrisi come sono di politicamente corretto, non sanno cosa proporre, trovandosi alla fine costretti a erigere decine di moschee “legali” nelle loro roccaforti), la “colonizzazione” delle strutture scolastiche da parte dei figli degli immigrati (le classe di venti alunni tutti di origine straniera non fanno più notizia) e le donne vestite in spiaggia.
La questione delle donne islamiche che fanno il bagno vestite sembra per l’appunto aver suscitato maggior indignazione negli indigeni (al di là delle polemiche artefatte dei leghisti sionisti). L’italiano medio naturalmente non riesce più a esprimersi in termini “scorretti”, e perciò anche in questi casi manifesta il proprio malessere con concetti fintamente neutrali: oltre che di “cultura” si parla perciò anche di “igiene”, perché farsi il bagno vestite “con gli stessi vestiti con cui si è saliti sull’autobus” (testimonianza di un monfalconese a una trasmissione di Rete4) rappresenterebbe un grave pericolo biologico o roba del genere.
Dunque tale crociata brancaleonesca potrebbe esser vinta fornendo un burkini pulito a ogni bangladessa che giunge in spiaggia? Oppure contestando l’eventualità che le donne bangla non indossino un costume in spiaggia a causa della “barbarica e medievale” mentalità islamica? La destra italiana è ancora ben recintata nei soliti paradigmi fallaciani, secondo i quali la più pura espressione del cristianesimo sarebbe offrire alle donne la possibilità di indossare una minigonna (uno dei letimotiv de La rabbia e l’orgoglio, per chi lo ha letto).
Lasciamo andare queste fanfaluche e cerchiamo di rappresentare la questione in termini veramente “culturali” e “igienici”: mi è capitato spesso di leggere sfoghi internettiani di inglesi, americani e canadesi riguardanti l’usanza radicata in certi popoli di cagare all’aperto. Una recente testimonianza di un anonimo residente dell’Ontario su tale pratica ha suscitato un discreto dibattito anche da parte dei rappresentanti dell’etnia (o “cultura”) coinvolta rimasti nella madrepatria:
«Ci sono individui che cacano continuamente nelle spiagge delle piccole città dell’Ontario. Mi spiace doverlo dire, ma la situazione sta sfuggendo di mano. Sono appena andato a trovare alcuni parenti nell’Ontario meridionale e ho visto persone che letteralmente cacavano su tutte le spiagge lungo il lago Erie. Le nostre sono piccole città e la maggior parte di esse non ha bagni sulle spiagge, quindi invece di andare nella toilette di un locale (o “pianificare” i propri movimenti intestinali per non defecare in pubblico) queste persone semplicemente… cacano in tutte le spiagge, oltre che sconfinare nelle proprietà della gente per scattare foto e mostrare ai connazionali “quanto è bello il Canada”, per poi lasciare dietro di sé spazzatura. Sto parlando di cumuli di spazzatura abbandonati sulle spiagge. Alcuni residenti provano a discutere con costoro, ma non parlano inglese e continuano a gettare enormi quantità di spazzatura formando discariche sulla spiaggia. Purtroppo, le persone che fanno la cacca sulle spiagge appartengono tutte allo stesso gruppo demografico: nuovi canadesi provenienti dall’India. Il fatto che abbiamo un così alto numero di immigrati indiani che scelgono il Canada come loro nuova “casa” rende necessario insegnare a queste persone quanto sia importante per la nostra cultura l’igiene».
Ecco, mi domando se magari uno degli aspetti innominabili della questione non riguardi proprio la famigerata “defecazione all’aperto”, una piaga che i Paesi di quell’area stanno cercando di debellare ormai da decenni; considerando poi che la maggioranza degli immigrati bengalesi in Italia proviene da aree rurali e non urbane, non è impensabile che alcuni di essi non trovino alcun problema a defecare in pubblico.
Naturalmente è soltanto una ipotesi, perché l’idea che solo un bagnetto con un vestito tradizionale possa far saltare i nervi in gente che ha accettato la completa “bangladizzazione” della propria città (peraltro rompendo l’anima al resto dell’Italia con il fanatismo della “tradizione bisiaca”, gettata immediatamente all’ortiche per un piatto di lenticchie) mi suona strana. Anche se magari il fulcro di tutta la faccenda è proprio questo. Del resto, come sosteneva un vecchio adagio: ognuno ha i nemici che si merita.