Le scuole italiane dovrebbero chiudere TUTTO L’ANNO per TUTTE le festività religiose e anche civili

Qualcuno ricorderà che una volta facevo l’insegnante; poi, con l’alibi del Green Pass, ho deciso di abbandonare un mestiere che obiettivamente mi costringeva a troppi compromessi col sistema (lo pseudo-obbligo vaccinale in fondo è stato l’ultimo dei mali), condannandomi a un destino di fragilità economica cioè esistenziale (quindi donate, grazie).

Ad ogni modo, durante il mio breve ma intenso Grand Tour nella scuola pubblica ricordo un bel giorno di essermi imbattuto in una “agenda multiculturale”… o forse era un “calendario interculturale”? Insomma, per capirci, uno di quei gadget equosolidali che ogni tanto vengono sbolognati agli educatori in cambio della loro anima, il quale riportava quotidianamente le festività religiose e civili di tutti i popoli e le culture del mondo, da Hannukkah (scritto “Chanukkah”, che detto fra i denti è una celebrazione poco sentita dagli ebrei praticanti ma per che per motivi da non indagare viene esaltata dalle comunità occidentali quasi come una sorta di contraltare esotico al “bianco Natale”) al Capodanno cinese fino al Martin Luther King Day.

Questo strumento eccezionale fece sorgere in me un’idea altrettanto straordinaria: chiudere la scuola per rispetto di TUTTE le religioni e culture a livello universale. One Love, One World, 365 giorni di ferie all’anno!

Purtroppo la mia proposta non suscitò alcun entusiasmo nel corpo docente, e anche quando pensai di continuare in solitaria il mio cammino eroico, dichiarandomi seguace della Eterna Tradizione Primordiale Universale (a mo’ di tributo alle mie disdicevoli simpatie perennialiste d’adolescenza), finì in odore di mistica fascista e decisi perciò di lasciar perdere.

È stata senza dubbio un’occasione mancata, ma in compenso ho percepito un same feeling (uso anglismi a caso per sentirmi ancora insegnante) quando una scuola di Piotello (lol già solo per la località) ha deciso di indire un giorno di festa per la fine del Ramadan (Eid-al-Fitar, che si pronuncia come “Adolf Hitler” all’americana), adducendo motivazioni pragmatiche ed esigenze didattiche (del tenore: “Oltre il 99,9% degli alunni sono musulmani”).

La scelta ha suscitato il solito squallido teatrino politico, a destra come a sinistra, allorquando una fazione ha cercato di aizzare la plebe contro il “caso eclatante” per nascondere la propria incapacità nel gestire il fenomeno migratorio (eppure sono convinto che chi sbraita ora contro l’islamizzazione si convertirebbe seduta stante al maomettanesimo se ciò servisse a impedire anche a un solo immigrato di entrare in Italia), mentre dall’altra parte è stata inscenata la solita kermesse di buonismo, integrazione posticcia e Kulturkampf per procura, mettendo ‘sti cazzo di migranti davanti (cit.).

In verità uno dei difetti più marchiani della delibera è che essa dispone la chiusura dell’istituto in questione solamente di mercoledì, giorno in cui si conclude effettivamente il Ramadan, bruciandosi quindi la possibilità di allungare qualche altra festività One Day One Shot con uno di quei monumentali “ponti” sui quali al giorno d’oggi solo uno statale potrebbe permettersi di “transitare”.

Inoltre va aggiunto che nonostante il giorno di pausa sia stato deciso in base al rispetto delle “diversità culturali”, non si è colta l’occasione, sempre per rimanere in tema di islam, di aggiungere nawruz (il capodanno persiano celebrato dalle comunità iraniche e turciche), oppure la Giornata dell’Indipendenza dell’Albania (28 novembre) e la Giornata per i diritti dell’infanzia, festa nazionale -è il colmo!- in Romania e Moldavia.

Al di là delle battute, la vicenda in generale mi ha rattristato profondamente e ha acuito il mio sconforto riguardo al futuro dell’istruzione in Italia (per non dire del resto). Mi infastidisce in particolare la strategia dei “medio progressisti” di écraser l’infâme fingendo una tolleranza assolutamente pelosa, nonché la maschera delle “esigenze didattiche” a fronte di una scelta smaccatamente ideologica. Perché esporre le comunità straniere all’astio collettivo solo perché non si ha il coraggio di combattere apertamente le proprie battaglie?

Questo è il classico esempio della “disintegrazione” spacciata per “integrazione”: altro che islamizzazione, altro che ecumenismo, lo scopo è continuare la decostruzione della nostra società in nome di chissà quale rivoluzione fallita. Così, d’emblée, mi torna in mente l’epoca in cui nel Nord Italia giunsero milioni di meridionali i quali, non trovando abbastanza chiese per la loro fame di sacro, cominciarono a pregare nelle stazioni e nei negozi, suscitando la necessità, in un Settentrione che si stava laicizzando, di rilanciare l’edilizia religiosa, che, su impulso del ferale “Spirito del Concilio”, si espresse esclusivamente nelle forme dell’architettura moderna. Il risultato fu che, un attimo dopo che gli vennero costruiti templi così rivoltanti, i terroni si disamorarono della religione e città come Milano si trovarono in pochi anni sopraffatte da improponibili cattedrali nel deserto, a metà strada tra le kommunalki e la Fiat Tagliero di Asmara.

Mi sembra di poter identificare un medesimo “demone” all’opera dietro a certe iniziative in cui i desideri dei semplici vengono strumentalizzati e dirottati verso obiettivi totalmente estranei a qualsiasi “sentimento popolare”: ma come all’anima medievale dei fedeli della Bassa Italia ripudiavano le chiesacce vaticanosecondiste, così i magrebini di prima seconda e terza generazione inorridiranno al pensiero che uno dei cinque pilastri dell’islam possa essere accostato a liturgie LGBTQ, mondialiste e “civiche”. Si dimenticheranno di Allah e Allah si dimenticherà di loro, come italiani e terroni si sono dimenticati di Cristo e Cristo si è dimenticato di loro.

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