È su tutti i giornali di oggi, ma probabilmente tra qualche giorno cadrà già nel dimenticatoio, la notizia che il gioielliere Mario Roggero (oggi 68enne) è stato condannato a 17 anni di carcere per aver ucciso due rapinatori e averne ferito un terzo durante una rapina al suo negozio avvenuta il 28 aprile 2021.
La Corte d’Assise di Asti, presieduta da un giudice, appartenente -solo per la cronaca- alla corrente di Magistratura Democratica, ha deciso di infliggere una pena più alta rispetto alla richiesta del Pubblico Ministero (14 anni). È stato inoltre quantificato un risarcimento di circa mezzo milione di euro in favore del ladro ferito e dei familiari dei rapinatori uccisi.
Roggero ha commentato duramente la sentenza (“Viva la delinquenza, viva la criminalità”), dicendosi “sconcertato e deluso” anche dall’avallo dei giudici popolari, che dovrebbero effettivamente esprimere pareri meno influenzati dall’ideologia e dalla politica, come ha giustamente notato il condannato, il quale si è tuttavia detto ancora convinto che “il 95% della popolazione italiana sia con me”.
I fatti in due parole: due dei tre rapinatori sono entrati nel negozio puntando una pistola contro le commesse (la moglie e la figlia di Roggero), le hanno legate e sono fuggiti con la refurtiva. Il gioiellerie li ha rincorsi all’esterno della sua attività e ha esploso contro di loro alcuni colpi. Per il PM si è trattato nientedimeno che di una “esecuzione”.
La versione del gioielliere è però un’altra: posto che l’arma (una calibro 38) con cui ha ucciso l’aveva acquistata dopo un’altra rapina avvenuta nel maggio 2015 (quando tre banditi lo legarono e lo percossero brutalmente, portando via un bottino di circa 200mila euro), Roggero sostiene di aver sparato perché convinto che i ladri avessero rapito sua moglie (“Le ero passato di fianco con la pistola in mano, senza vederla”), e che comunque sarebbe stato difficile accorgersi che la pistola degli aggressori fosse finta (“Mi avevano puntato la pistola alla testa, quella sembrava una Glock vera, i periti ci hanno messo tempo per esarminarla e capire che era falsa“).
Ci sono tanti elementi che lasciano perplessi in questa vicenda: in primis che sia gli autori della precedente rapina, sia il ladro sopravvissuto all’ultima, hanno ricevuto condanne piuttosto miti (dai 3 a i 5 anni); in secondo luogo che all’epoca dell’omicidio il Piemonte era ancora nella fatidica “zona rossa” e probabilmente qualcuno ricorderà come i cittadini fossero sorvegliati a vista dalle forze dell’ordine (a meno che il lockdown e il coprifuoco non valessero solo per gli incensurati); infine, che l’imputato è stato trattato alla stregua di un un boia o un serial killer e insultato ripetutamente durante il processo dai parenti dei rapinatori uccisi.
Già allora il caso aveva sollevato pareri contrastanti. Per fare un solo esempio, lo scrittore Mauro Corona, tollerato dai salotti televisivi, non difese direttamente il gioielliere ma mostrò parole di comprensione:
«Anni fa mi hanno sfondato la vetrina per rubare, non sapendo che io dormo tra le statue. E quindi sono partito con l’ascia. Se li prendevo, erano guai: in quel momento lì non ci ho più visto. La mia sinistra, che non esiste ormai più, mi attaccò dicendo che ci avrebbe pensato lo Stato. Ma che ne sai tu, se domani sera vengo a casa tua a rubare? Bisogna mettere un poliziotto per ogni casa italiana? Questa è demagogia e ipocrisia. Bisognerebbe fare una legge non per chi si difende, ma per coloro che entrano lì: “Sappiate che se entrate non invitati, potete uscire stesi”, questa è la legge».
Nell’ambito del mainstream, quella di Corona è stata una vox clamantis in deserto (lo scrittore del resto ha potuto esprimersi così perché considerato una sorta di trickster dell’infosfera); lo stesso avvocato difensore del gioielliere ha immediatamente stigmatizzato l’eccessiva “attenzione mediatica”, che non ha potuto che influire sul verdetto, in particolare nel valutare le attenuanti: «I giudici non hanno apprezzato abbastanza lo stato psichico in cui si trovava, sottolineato da tutti i consulenti. Le condizioni di Mario Roggero non gli consentivano una percezione esatta della realtà» (anche lo psichiatra nominato dalla procura aveva riconosciuto all’imputato la parziale incapacità di intendere).
Da “destra” c’è stata di certo una inevitabile strumentalizzazione del caso, ma ipotizzare che il reo abbia agito in quanto simpatizzante di una parte politica è piuttosto disonesto (s’intende dal punto di vista intellettuale), dal momento che alla fin fine per il “giustiziere” non è giunta alcuna parola di comprensione da nessuna istituzione: probabilmente è solo per tale motivo che Roggero si è ridotto, in un’intervista a “La Stampa”, a invocare l’aiuto del generale Vannacci («Adesso intendo contattare Roberto Vannacci. Dice cose su cui sono completamente d’accordo: qui c’è tutto che va all’incontrario»).
Chi ha letto il famigerato volume del Generale (Il mondo al contrario), sicuramente ricorderà le pagine sulla legittimità assoluta della difesa, teorizzata nel suo stile tranchant e concionatorio (ma non per questo meno condivisibile):
«La difesa, a parte rare eccezioni, deve essere considerata sempre legittima! È l’aggredito la vittima non l’aggressore. È a lui che vanno pagati i danni per lo spavento procurato e per il turbamento della sicurezza della propria persona che, ricordiamoci, insieme alla vita costituisce un diritto fondamentale garantito allo stesso articolo dalla Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo. Il principio della proporzionalità, infatti, in quasi tutti i casi viene rispettato se non nelle aule dei tribunali certamente nella cruda realtà. L’aggressore è sempre in vantaggio. Ve lo dice un esperto di forze ed operazioni speciali. Lui detiene l’iniziativa e sa quando e come entrare in azione sorprendendoci; lui pianifica l’azione con meticolosità; lui si prepara ripetutamente prima del colpo in modo da non lasciare nulla all’imprevisto; lui compie l’atto criminoso molto velocemente non dandoci il tempo di reagire; lui impiega aggressività e motivazione – sa cosa cercare e ottenere – per portare a termine la sua rapina mentre la vittima è colta sempre dal dilemma se scappare, difendere i suoi cari, chiamare aiuto o reagire fisicamente. In termini dottrinali l’aggressore realizza la superiorità relativa, ovvero quella condizione che le forze speciali di tutto il mondo ricercano per avere ragione di unità più consistenti e meglio organizzate a difesa. Il vantaggio, per cui, è sempre sproporzionatamente a favore dell’aggressore. Come fa la reazione della vittima a essere considerata sproporzionata? Anche se smilzo e dotato di solo temperino in pugno chi ha l’iniziativa ha la meglio su un energumeno colto all’improvviso e armato di una Colt 45 nella fondina. La proporzionalità della difesa, quindi, dev’essere commisurata con la minaccia percepita dall’aggredito e non con il valore dell’oggetto che poteva essere ingiustamente sottratto. Cosa ne so che il malvivente che aspira al mio portafogli non è pronto ad ammazzarmi anche a mani nude per ottenerlo? Cosa ne so se, anche disarmato, non possa usare oggetti contundenti per mettere in pericolo la mia vita? Cosa ne so se in tasca non abbia un martello o un cacciavite da usare prontamente? E se pianto la matita che ho nel taschino nella giugulare del ceffo che mi aggredisce – ammazzandolo – perché dovrei rischiare di essere condannato per eccesso colposo di legittima difesa visto che il povero malcapitato tentava solo di rubarmi l’orologio da polso? Perché devo provare che in quel repentino, concitato e adrenalinico nanosecondo a disposizione per decidere cosa fare non ho potuto valutare un’alternativa meno violenta che preservasse il povero assalitore?».
Il ragionamento si concludeva con considerazioni perfettamente adattabili all’affaire Roggero:
«Non sembra quasi ridicolo che vittime di aggressioni assolte penalmente soccombano nei processi civili e siano costrette a grotteschi rimborsi nei confronti dei loro aggressori? Oltre il danno dell’aggressione la beffa del risarcimento. […] Non è possibile continuare a tollerare che la vittima venga colpevolizzata in processo mentre l’aggressore sia ristorato con un lauto risarcimento».
Il collegamento tra Vannacci e Roggero è stato fatto dai giornalisti stessi, in un copione che ha oltrepassato da tempo, appunto, il grottesco. Il simile conosce il simile, quindi. Ripartiamo allora dai fatti: nel nostro Paese, in caso di rapina, c’è un pregiudizio positivo nei confronti degli aggressori. Per loro ogni attenuante viene assunta come valida, dal contesto sociale al livello di istruzione, dallo stato di alterazione alle condizioni psichiche. Per l’aggredito, invece, anche nei casi in cui non si difende, scatta in automatico la “presunzione di colpevolezza”: sicuramente ha fatto qualcosa di sbagliato, anche solo esistendo (o avendo un’attività o possedendo una casa).
L’unico intellettuale degno di questo nome ad aver cercato un minimo di ragionare è Stefano Zecchi (ovviamente collocato a “destra”), che ha affermato che una condanna di tale entità ridurrebbe Roggero a un “pericolo pubblico”:
«Troppo evidente il fatto che il Roggero abbia sbagliato a rincorrere i suoi rapinatori fuori dal suo negozio, per strada; ma quest’azione non può trasformare immediatamente l’aggredito in un aggressore, essendo essa stessa la conseguenza di un’aggressione subita. È una costatazione logica».
La logica, ecco cosa manca in tutta la faccenda. Si parlerà a lungo perciò di riforme e modifiche alla legge, ma è evidente che qui c’è in azione una forma mentis impossibile da emendare anche inserendo un ipotetico “dogma della legittima difesa” nei dieci comandamenti. Sembra che lo scopo principale del sistema sia proprio quello di dimostrare che ogni difesa è illegittima: questa è la deriva, al di là di ogni polemica del momento, che appare irriformabile.
C’è chi la definisce anarco-tirannia, ovvero l’utilizzo del crimine come strumento di controllo sociale: chiaramente molti altri fattori, non solo politico-ideologici ma anche storico-culturali e psicologici, intervengono a influenzare questo umanitarismo peloso e paradossale, ma forse è utile cominciare a dare alle cose il proprio nome, e giungere persino a pensare l’impensabile (0 l’impensato) e, di conseguenza, definire l’indefinibile (o l’indefinito).
Anarco-tirannia: il crimine come strumento di controllo sociale
Il gioielliere ha un posto sicuro in parlamento, chi non lo candiderebbe?
Forse ti confondi con altri casi. Questo signore finirà in galera punto e basta. Non è mai successo che un “giustiziere” sia riuscito a ottenere un posto in politica in seguito alla visbilità mediatica, certi giochi di prestigio riescono solo alla sinistra, per i motivi di cui sopra.
Sinistra che ha portato in parlamento fior di assassini nel dopoguerra, proprio per evitare loro il carcere.
Quando ho letto questa notizia ho pensato proprio all’anarco-tirannia di cui parlasti tempo addietro
⚖ L’autore di crimini – se non ignoto – deve pagare. È un’esigenza sociale primaria: altrimenti, perché tribunali e carceri?
⚖ Se ciò è vero, in flagranza ostacolarne la fuga è per natura un diritto/dovere di qualunque membro della società.
⚖ Se ciò è vero, è anti-giuridico il “dogma” mediatico-clericale secondo cui la salvaguardia della vita e dell’incolumità fisica deve prevalere sul Diritto.