Per quanto possa apparire paradossale, nella nostra società superfemminista, ultrasensibile e iperprogressista, il richiamo ai paradigmi tradizionali del machismo è costante, palese e a volte persino sfacciato: il maschio deve essere comunque un “patriarca” anche in assenza di patriarcato (o direttamente in presenza di matriarcato). Nella pratica, egli deve rendersi disponibile sia a scavare trincee che a cambiare pannolini, sia a essere cornuto (“poliamoroso”) che a portare il pane a casa, sia a svolgere le mansioni più pericolose (circa il 90% dei morti sul lavoro sono ancora uomini) che a sorbirsi la ramanzina quotidiana sulla “mascolinità tossica”.
Una mascolinità a tutti gli effetti strumentalizzata da un lato per farla ritorcere contro se stessa e dall’altro per farle svolgere il ruolo del nano gobbo dentro il famigerato “Turco”, quel finto automa campione di scacchi evocato da Walter Benjamin nelle Tesi sul concetto di storia (il filosofo invitava il marxismo a prendere a suo servizio la teologia, “che oggi, com’è a tutti noto, è piccola e brutta, e tra l’altro non deve lasciarsi vedere”).
A partire da tale premessa, effettivamente stupisce che, nel caso del vaccino anti-covid, l’armamentario retorico sul “vero uomo” non sia stato sfoderato, oltre che da qualche vecchiaccio intervistato a scopo propagandistico dai tg di regime (“Io di vaccini me ne farei anche dieci!”; “Al militare me li sparavano nel petto, figuriamoci se mi faccio spaventare da una punturina!”; “Ai miei tempi” ecc. ecc), da una frangia minoritaria del mainstream: penso a Giuliano Cazzola (passato dalla CGIL a Monti e ora a Più Europa, dunque -è scontato- covidiano ad honorem), che ha invitato il Ministro dell’Interno a richiamare Bava Beccaris per cannoneggiare i manifestanti scesi in piazza contro il Green Pass; penso agli altri “morsi di pecora” (sostenuti però dal finto moderatismo istituzionale) di chi ha invocato a trattare i non vaccinati come “sorci”, a escluderli dall’accesso ai luoghi pubblici nonché dal Servizio Sanitario Nazionale.
La linea che invece va per la maggiore, anche tra gli anarco-capitalisti, i liberali classici e gli individualisti, è il richiamo allo “spirito di comunità”, al “dovere della solidarietà” e al “senso di responsabilità collettiva”, per usare l’espressione del Ministro dell’istruzione del Governissimo Draghi, Patrizio Bianchi, con il quale introduceva sostanzialmente l’obbligo vaccinale per il personale scolastico (a meno che uno non sia disposto a farsi un tampone a sue spese ogni giorno – ché la durata di 48 ore parte dall’esecuzione del test e non dai risultati, lo sapevate?).
A titolo d’esempio, cito Curzio Maltese su Repubblica che, dopo aver irriso alle preoccupazioni dei cosiddetti no-vax con la tesi che il vaccino anti-covid “ormai è stato testato su milioni di persone” (dunque il fatto che per lui sia “andata bene” annulla la natura sperimentale dell’intera operazione?), tira in ballo, appunto, la comunità con queste parole: “Ognuno di noi è certo libero di decidere del proprio corpo, anche se durante una pandemia ci si aspetterebbe un incremento etico verso la comunità“. Argomento a doppio taglio, perché secondo lo stesso principio una nazione in crisi demografica potrebbe obliterale gli slogan femministi anni ’70 e proibire l’aborto. Tanto per dire…
Ad ogni modo, stupisce questo tentativo dello spirito dei tempi di mantenere un minimo di coerenza con se stesso e non buttarla, come dicono gli anglosassoni, sul man up, cioè sul “fare l’uomo”. Anche se c’è chi ancora declina la “responsabilità collettiva” in senso strettamente maschile, è un dato di fatto che il concetto di comunità qui adombrato viene inteso in senso materno, protettivo, previdenziale. Eppure la natura stessa dell’esperimento in corso necessiterebbe un richiamo alla “mascolinità tossica”, che potrebbe procedere di pari passo con la sua ratio pioneristica, prometeica, rodomontana.
Sto pensando al film Contagion del 2011, che dall’inizio della pandemia i media americani hanno mandato in onda regolarmente. È una classica pellicola di propaganda che mostra il complottista imbroglione e opportunista, il politico corrotto ma di buon cuore, gli scienziati spregiudicati ma interessati al bene comune. Erano i tempi in cui Hollywood, non potendo ancora prescindere dai paradigmi classici, li camuffava a misura di minus habens: in tal caso, per fare un esempio, la pandemia parte da una donna fedifraga (interpretata da Gwyneth Paltrow) che se la fa con i cinesi mascherando la sua deboscia con la scusa dei viaggio d’affari, mentre il marito (Matt Damon), uno dei pochi americani che ha sviluppato gli anticorpi contro il virus, è un buon padre di famiglia che riesce a salvarsi sia per la sua morale integerrima che per il suo corredo genetico. Senza dilungarmi troppo su questo filmaccio, vorrei far notare la sottile insinuazione da parte degli sceneggiatori che etica e genetica vadano di pari passo, nel momento in cui fanno sopravvivere il padre morigerato e la figlia nata dal suo primo matrimonio, mentre fanno crepare la madre sciagurata e il suo figlioletto.
Comunque, la scena clou, per quel che ci interessa, è quella in cui la dottoressa Ally Hextall (interpretata da Jennifer Ehle) si inietta il vaccino sperimentale per saltare tutto il percorso di trial e consentirne l’approvazione immediata. Il fatto che a “forzare la mano” sia una donna non dovrebbe trarre in inganno: il suo gesto è ispirato alle virtù maschili, come dimostra la scena in cui fa visita al padre infettato (anch’egli medico), il “patriarca” che le ha conferito il coraggio di andare al di là del bene e del male.
Dieci anni dopo quel film, la classica figura dello scienziato “eroe solitario” che agisce contro la burocrazia è stata sostituita dall’apparato burocratico stesso, in nome, come dicevamo, del bene comune e della responsabilità collettiva: ma è difficile far procedere valori così disomogenei in parallelo senza contribuire all’acuirsi di quella schizofrenia che segna così profondamente il nostro evo.
Un segnale del senso di colpa suscitato dalla violenza istituzionale (patriarcale) con cui si è cercato di perseguire uno scopo così materno, amorevole, protettivo, altruista, è rappresentato da Old (appena uscito), del regista indiano-americano M. Night Shyamalan (se volete evitare spoiler, saltate questa parte e riprendete a leggere al segno >>>>>>).
La pellicola narra di un gruppo di turisti mandati dal direttore del resort tropicale in cui villeggiano in una spiaggia isolata, nella quale un tipo di particolare di roccia fa invecchiare di un anno intero ogni mezz’ora. Dopo le prevedibili tragedie (tutte abbastanza stravaganti e al limite della fantamedicina), alla fine si scopre che la “vacanza” era un esperimento condotto da un gruppo di ricerca (a cui fa capo il direttore) che vuole testare l’effetto dei farmaci a lungo termine sfruttando l’accelerazione conferita dalla spiaggia alla vita delle cavie umane. Mentre il Gran Scienziato si ammanta di filantropia, i due bambini sopravvissuti, ormai cinquantenni, riescono a sventarne il piano e a far arrestare tutti i dipendenti dell’azienda farmaceutica nascosta in un villaggio vacanze. Sicuramente i covidioti che sono andati a vederlo col Green Pass non avranno afferrato la morale del finale, che sembra voler condannare l’idea di una sperimentazione di massa “a fin di bene” e denunciare il pericolo che la tecnica annulli l’umano.
>>>>>> Old è una delle tante manifestazioni della coscienza sporca che caratterizza un’epoca in cui non esiste alcun “centro di riferimento” (Zentralgebiet) in grado di dirigere l’azione politica o dare un senso al destino, almeno biologico, della specie: sembra che lo scopo rimanga sempre l’annullamento dell’umano, se non dal punto di vista fisico, almeno morale.