All’approssimarsi del referendum col quale il Kurdistan iracheno proclamerà l’indipendenza, Benjamin Netanyahu ha voluto rimarcare il supporto incondizionato di Israele alla nascita del nuovo Stato.
La collaborazione tra ebrei e curdi risale in effetti a molti decenni addietro ed è un tema che è sempre riuscito a mettere d’accordo sinistra e destra israeliana (ricordiamo gli accorati appelli di Avigdor Lieberman), entrambe interessate alle ricadute internazionali che produrrà la creazione di una patria curda: da una parte, il Kurdistan sarà infatti utile ad avviare una détente con gli alleati occidentali i quali, nel peggiore dei casi, si troveranno d’ora in avanti costretti a prestare maggiore attenzione a un “secondo Israele” (sicuramente più cattivo e in posizione più scomoda dell’originale); dall’altra, servirà ovviamente a mettere in difficoltà antagonisti storici come Turchia, Iraq, Iran e Siria.
L’intervento del premier israeliano giunge anche a correggere una sparata del generale Yair Golan (gaffeur di professione), il quale in una conferenza a Washington aveva elogiato il PKK e invocato la sua rimozione dalla lista delle organizzazioni terroristiche. È chiaro che Netanyahu ha preferito scusarsi coi turchi secondo il suo stile, cioè rigirando la frittata: «Israele si oppone sia ai terroristi del PKK sia alla Turchia che sostiene i terroristi di Hamas».
Tuttavia non per questo il suo appoggio alla causa curda è venuto meno, anzi si è corroborato con una possibilità di crescente “legalizzazione” delle attività curde attraverso i peshmerga (i “pancioni”, secondo un imbarazzante “analista” nostrano) e i gruppi a essi correlati.
La nascita di un Kurdistan indipendente, seppur di dimensioni ridotte, rappresenterebbe quindi una vittoria per Israele. Va riconosciuto ai nostri fratelli maggiori di aver rispettato il motto del Mossad: “Con le decisioni prudenti si fa la guerra” (Prv 24, 6), che il buon Victor Ostrovsky traduceva sfacciatamente come By way of deception thou shalt do war (“Farai la guerra attraverso l’inganno”). C’è un altro successo, infatti, conseguito dallo Stato ebraico a livello propagandistico in conseguenza della curdomania dilagante: quello di aver lentamente eroso, negli “ambienti che contano”, l’autorevolezza della causa palestinese, rimpiazzandola appunto con quella curda.
Chi è sensibile a talune suggestioni si sarà accorto che nelle solite manifestazioni “antagoniste”, i vessilli dell’OLP sono ormai surclassati da quelli dell’YPG: se voi andaste a domandare a uno di quei “ragazzi dei centri sociali” (ovviamente dopo aver preso tutte le precauzione igieniche del caso) chi a suo parere tra Israele e Turchia sia il più “cattivo” (seguendo quindi i suoi schemi sentimentali), quello probabilmente risponderebbe “per me pari sono” (facciamoli esprimere con un tocco di colore).
È stato un capolavoro di hasbarà, creare un’immagine del curdo adatta a qualsiasi palato (femminista, anarchico, monarchico, socialista, nazionalista). Lo dimostra per esempio il fatto che la nota rivista italiana di geopolitica Limes abbia cercato di smontare senza successo Il mito curdo con un numero ad hoc, di fronte a una opinione pubblica che ormai preferisce informarsi sulla politica internazionale attraverso i fumetti. A questa variazione di “simpatie” corrisponde lo sdoganamento dell’equiparazione tra attacchi terroristici in Europa e nello Stato ebraico (uno dei cavalli di battaglia dello stesso Netanyahu dai tempi in cui faceva l’ambasciatore): ma questa, obiettivamente, è tutta un’altra storia.
Dunque, oggi avrà luogo questo referendum separatista dall’esito scontato. Sembra che anche i residui oppositori politici, a parte le diverse minoranze etniche (arabi, turkmeni, siriaci) e religiose (yazidi), si stiano convincendo a dare il proprio assenso. In fondo, perché no? Voglio dire: tutto quello che ho detto finora va interpretato come un attacco esclusivamente rivolto a chi si illude che un Kurdistan “libero, socialista, pacifista” sarà qualcosa di diverso da Israele. Per il resto, non vedo in che modo gli attori in gioco potrebbero comportarsi diversamente: non hanno, i curdi, il diritto a una loro patria? Non hanno, Iraq, Iran e Turchia il diritto di difendere le loro, di patrie? Non ha Israele il diritto di sostenere una nazione gemella e avvantaggiarsene dal punto di vista strategico?
Ragionare per antipatie e simpatie è ridicolo, anche se pure io posso ammettere, a onta dei luoghi comuni, che è sempre meglio avere un “faccendone” (o “pancione”, come dice l’illuminato opinionista di cui sopra) del calibro di Barzani a gestire tale complicatissima transizione, che non qualche fessacchiotto idealista con la sua morale da quattro soldi e i suoi ideali da adolescente inquieto. Perché, per riprendere la serie di domande retoriche, non abbiamo noi, in quanto italiani, il diritto (se non il privilegio) di farci un po’ i cazzi nostri (lato sensu)?