I testi violenti di Giacomo Leopardi

Nel 2022 un’università britannica, la University of Reading, ha deciso di espungere alcuni versi del Ψόγος γυναικῶν (Satira delle donne) di Semonide di Amorgo, poeta greco della seconda metà del VII secolo a.C., per un riferimento alla violenza sulle donne (cfr. University cuts lines from ancient poem…,”Telegraph”, 2 gennaio 2022).

Inizialmente, nel presentare il poema alle matricole, l’Università aveva posto un trigger warning a inizio del corso, affermando che gli studenti avrebbero avuto a che fare con “un esempio di misoginia estrema dell’Antica Grecia”, ma alla fine, allarmati appunto dal pericolo triggheramento le autorità accademiche (nonostante nessuno si fosse lamentato in tal senso), hanno deciso di passare alla censura diretta dei versi “inutilmente spiacevoli”.

Non sono mancate le critiche, seppur sparute, alla decisione: il professor Doug Stokes, mosca bianca del mondo accademico britannico, ha tacciato l’iniziativa di essere caratterizzata da “una viscida e illiberale enfasi sul benessere emotivo” delle nuove generazioni, che a suo parere non può che condurre a una loro ulteriore infantilizzazione. L’istituto ha però tirato dritto, respingendo le accuse di censura e di iperprotettività nei confronti degli studenti e affermando che in fondo chi vuole può andare a consultare l’opera completa in biblioteca (troppa grazia).

Lasciando da parte la questione in sé, obiettivamente poco entusiasmante (ormai la censura a tutela di un certo tipo di “sensibilità” va per la maggiore nell’anglosfera), è invece interessante ricordare che il componimento giambico di Semonide, conosciuto anche come Biasimo delle donne, venne tradotto nel 1823 da un giovane Giacomo Leopardi alla ricerca di un solido fondamento classico alle sue convinzioni poco moderne e democratiche riguardanti il genere femminile.

La volgarizzazione (la prima in italiano) dell’opera di Semonide (che Leopardi con tutta evidenza identificava erroneamente con Simonide di Ceo), a suo dire “molto antica e molto elegante”, si accompagnò in quegli anni agli impietosi ritratti delle “bestie femminine” offerti dal Poeta nei diari e negli epistolari privati, espressione di un’opinione già all’epoca controcorrente in un contesto culturale che tendeva ormai sempre più marcatamente alla filoginia.

Si pubblica di seguito il testo integrale della traduzione leopardiana, che rende il passaggio espunto dalla versione “non triggherante” (in inglese moderno “She’s used to getting smacked, and won’t give in | until you threaten her and really force her”) in tal guisa: “Una donna dal ciuco e da la cenere | Suscitaro i Celesti, e la costringono | Forza, sproni e minacce a far suo debito” (il riferimento è alla donna che discende dall’asina, la quale fa il suo dovere solo se opportunamente battuta).

Giove la mente de le donne e l’indole
In principio formò di vario genere.
Fe’ tra l’altre una donna in su la tempera
Del ciacco [porco]; e le sue robe tra le polvere
Per casa, ruzzolando, si calpestano.
Mai non si lava nè ’l corpo nè l’abito,
Ma nel sozzume impingua e si rivoltola.
Formò da l’empia volpe un’altra femmina,
Che d’ogni cosa, o buona o mala o siasi,
Qual che tu vogli, è dotta; un modo un animo
Non serba; e parte ha buona e parte pessima.
Dal can ritrasse una donna maledica
Che vuol tutto vedere e tutto intendere.
Per ogni canto si raggira e specola,
Bajando s’anco non le occorre un’anima;
Nè per minacce che ’l marito adoperi,
Nè se d’un sasso la ritrova e cacciale
Di bocca i denti, nè per vezzi e placide
Parole e guise, nè d’alieni e d’ospiti
Sedendo in compagnia, non posa un attimo
Che sempre a vóto non digrigni e strepiti.
Fatta di terra un’altra donna diedero
Gli Eterni a l’uomo in costui pena e carico.
Null’altro intende fuorchè mangia e corcasi,
E ’l verno, o quando piove e ’l tempo è rigido,
Accosto al focolar tira la seggiola.
Dal mare un’altra donna ricavarono,
Talor gioconda, graziosa e facile
Tal che gli strani, a praticarla, esaltanla
Per la donna miglior che mai vedessero;
Talor come la cagna intorno a i cuccioli,
Infuria e schizza, a gli ospiti a i domestici,
A gli amici a i nemici aspra, salvatica,
E, non ch’altro, a mirarla, spaventevole.
Qual per appunto il mar, che piano e limpido
Spesso giace la state, e in cor ne godono
I naviganti; spesso ferve ed ulula
Fremendo. È l’ocean cosa mutabile
E di costei la naturale immagine.
Una donna dal ciuco e da la cenere
Suscitaro i Celesti, e la costringono
Forza, sproni e minacce a far suo debito.
Ben s’affatica e suda, ma per gli angoli
E sopra il focolar la mane e ’l vespero
Va rosecchiando, e la segreta venere
Con qualsivoglia accomunar non dubita.
Un gener disameno e rincrescevole,
Di bellezza, d’amor, di grazia povero,
Da la faina uscì. Giace nel talamo
Svogliatamente, e del marito ha stomaco:
Ma rubare i vicini e de le vittime
Spesso gode ingojar pria che s’immolino.
D’una cavalla zazzeruta e morbida
Nacque tenera donna, che de l’opere
Servili è schiva e l’affannare abomina.
Morir torrebbe innanzi ch’a la macina
Por mano, abburattar, trovare i bruscoli,
Sbrattar la casa. Non s’ardisce assistere
Al forno, per timor de la fuliggine.
Pur, com’è forza, del marito impacciasi.
Quattro e sei fiate il giorno si chiarifica
Da le brutture, si profuma e pettina
Sempre vezzosamente, e lungo e nitido
S’infiora il crine. Altrui vago spettacolo
Sarà certo costei, ma gran discapito
A chi la tien, se re non fosse o principe,
Di quei ch’hanno il talento a queste ciuffole.
Quella che da la scimmia i numi espressero
È la peste maggior de l’uman vivere.
Bruttissima, scriata, senza natiche
Né cóllo, ma confitto il capo a gli omeri:
Andando per la Terra, è gioco e favola
De’ cittadini. Oh quattro volte misero
Quel che si reca in braccio questo fulmine.
Quanti mai fur costumi e quante trappole,
Come la monna [scimmia] suol, di tutto è pratica;
E non le cal che rida chi vuol ridere.
Giovar non sa, ma questo solo ingegnasi
E tutte l’ore intentamente medita,
Qualche infinito danno ordire e tessere.
Ma la donna ch’a l’ape è somiglievole
Beato è chi l’ottien, che d’ogni biasimo
Sola è disciolta, e seco ride e prospera
La mortal vita. In carità reciproca,
Poi che bella e gentil prole crearono,
Ambo i consorti dolcemente invecchiano.
Splende fra tutte; e la circonda e seguita
Non so qual garbo; nè con l’altre è solita
Goder di novellari osceni e fetidi.
Questa, che de le donne è prima ed ottima,
I numi alcuna volta ci largiscono.
Ma tra noi l’altre tutte anco s’albergano,
Per divin fato, chè la donna è ’l massimo
Di tutti i mali che da Giove uscirono:
E quei n’ha peggio ch’altramente giudica.
Perchè, s’hai donna in casa, non ti credere
Nè sereno giammai nè lieto ed ilare
Tutto un giorno condur. Buon patto io reputo
Se puoi la fame da’ tuoi lari escludere,
Ospite rea, che gl’Immortali abborrono.
Se mai t’è data occasion di giubilo,
O che dal Ciel ti venga o pur da gli uomini,
Tanto adopra colei, che da contendere
Trova materia. Nè gli strani accogliere
Puoi volentier se alberghi questa vipera.
Più ch’ha titol di casta, e più t’insucida;
Chè men la guardi: ma si beffa e gongola
Del tuo caso il vicin; chè spesso incontraci
L’altrui dannar, la propria donna estollere.
Nè ci avveggiam che tutti una medesima
Sorte n’aggreva, e che la donna è ’l massimo
Di tutti i mali che da Giove uscirono.
Da Giove, il qual come infrangibil vincolo
Nel cinse al piè; tal che per donne a l’erebo
Molti ferendo e battagliando scesero.

Una traduzione più consona all’orecchio dei moderni è quella (fino al v. 94) del grecista F. M. Pontani (1913–1983), che rende così il passo incriminato: “Una viene dall’asina, paziente | alle botte. Costretta e strapazzata, | il lavoro lo tollera”.

L’indole della donna Dio la fece
diversa. Una deriva dalla scrofa
setolosa; la sua casa è una lordura,
un caos, la roba rotola per terra.
Lei non si lava; veste panni sozzi
e stravaccata nel letame ingrassa.
Un’altra Dio la fece dalla volpe
matricolata: è quella che sa tutto;
non c’è male né bene che le sfugga.
Dice, sì, bene al bene e male al male,
ma s’adegua agli eventi e si trasmuta.
Come sua madre è quella che deriva
dalla cagna: curiosa di sentire
e di sapere, vagola, perlustra;
anche se non c’è un’anima, si sgola,
e non la calmi né con le minacce,
né se t’arrabbi e le fracassi i denti
con un sasso, né a furia di blandizie,
neppure stando in casa d’altri: insiste
quell’eterno latrato senza scopo.
Una gli dèi la fecero di terra
e la diedero all’uomo: minorata,
non ha idea né di bene né di male.
Una cosa la sa: mangiare. E basta.
Se Dio manda un dannato inverno, bubbola,
ma lo sgabello al fuoco non l’accosta.
Viene dal mare un’altra, e ha due nature
opposte: un giorno ride, tutta allegra,
sì che a vederla in casa uno l’ammira
(“non c’è al mondo una donna più simpatica,
non c’è donna migliore”). Un altro giorno
non la sopporti neppure a vederla
o ad andarle vicino: fa la pazza,
e che s’accosta, guai! Pare la cagna
coi cuccioli, implacabile: scoraggia
nemici e amici alla stessa maniera.
Come il mare che sta sovente calmo,
nell’estate, e sovente in un fragore
di cavalloni s’agita e s’infuria.
Tale l’umore di una donna simile:
anche il mare ha carattere cangiante.
Una viene dall’asina, paziente
alle botte. Costretta e strapazzata,
il lavoro lo tollera. Se no
mangia, rincantucciata, accanto al fuoco;
avanti notte, avanti giorno, mangia.
Così come si prende per amante
chiunque venga per fare l’amore.
Genìa funesta quella della gatta:
non ha nulla di bello o di piacevole,
non ha nessuna grazia, nessun fascino.
Ninfomane furiosa, sta con uno
e finisce col dargli il voltastomaco.
E rubacchia ai vicini, e spesso ingoia
le offerte prima di sacrificarle.
Nasce dalla cavalla raffinata,
tutta criniera, un’altra. Ed ecco, schiva
i lavori servili e la fatica,
la macina, lo straccio, l’immondizia
e la cucina (teme la fuliggine).
Anche all’amore si piega per obbligo.
Si lava tutto il giorno la sporcizia,
due, tre volte, si trucca, si profuma.
Sempre pettinatissima la chioma
fonda, fluente, ombreggiata di fiori.
Una simile donna è uno spettacolo
bello per gli altri: per lo sposo un guaio.
A meno che non sia principe o re,
che di simili cose si compiaccia.
La prole della scimmia: è questo il guaio
più grave che da Dio fu dato agli uomini.
Bruttezza oscena: va per la città
una tal donna e fa ridere tutti.
È senza collo, si muove a fatica,
niente natiche, tutta rinsecchita.
povero chi l’abbraccia, un mostro simile.
Ma la sa lunga, ha i modi della scimmia.
La gente la deride? Se ne infischia.
Certo, bene non fa: non mira ad altro
né pensa ad altro tutta la giornata
che a far del male, e a farne più che può.
Una viene dall’ape: fortunato
chi se la prende. È immune da censure
lei sola; è fonte di prosperità;
invecchia col marito in un amore
mutuo; è madre di figli illustri e belli.
E si distingue fra tutte le donne,
circonfusa di un fascino divino.
Non le piace di stare con le amiche
se l’argomento dei discorsi è il sesso.
Fra le donne che Dio largisce agli uomini
ecco qui le più sagge, le migliori.

Al di là della donna-asina che ha suscitato lo sconcerto ad Albione , ci sono altre tipizzazioni dilettevoli -per il Leopardi, s’intende- di quell’animale senza cuore che per il Poeta è la femmina: la donna-mare soggetta a sbalzi d’umore (il famigerato “bipolarismo” da cui oggi sembrano tutte affette), la donna-faina/gatto reticente al talamo ma non al ladrocinio; la donna-cavallo, sempre in ghingheri e sfaccendata, “vago spettacolo” per il prossimo ma di “gran discapito” a chi se l’è sposata; e la donna-scimmia, ripugnante tanto a livello estetico quanto morale.

Cosa cercava il buon Leopardi in questa satira “nota quasi soltanto agli eruditi” che volle riscoprire e far pubblicare in una delle riviste letterarie più diffuse all’epoca? È palese la necessità di cercare un pensiero proibito, reso ormai inconcepibile dall’opinione corrente e la cui manifestazione poteva solo essere affidata alla traduzione di un classico dimenticato.

Il riferimento alle polemiche sui “testi violenti” (della musica trap e affini) è volutamente provocatorio e, ovviamente, non ispirato a un ingenuo libertarismo che si suggestiona con un’irrealizzabile “libertà d’espressione”: tuttavia, già a suo tempo il volgarizzamento poteva essere interpretato come un “testo violento” ed essere eventualmente censurato. Il fatto che tale eventualità si sia verificata ora dice già tutto, o quasi: non si comprende però quale sia lo scopo di “proteggere” solo chi sceglie la via dell’istruzione superiore e invece dare in pasto alla plebe contenuti decisamente molto più triggeranti (anche dal punto di vista estetico). Non penso che Leopardi oggi si metterebbe a tradurre (o addirittura comporre) testi trap, tuttavia difficilmente si accoderebbe ai sedicenti “poeti” odierni e alle loro melensaggini.

One thought on “I testi violenti di Giacomo Leopardi

  1. Ho notato, qui e altrove, l’utilizzo dell’espressione “genere femminile” in sostituzione di “sesso femminile”. Visto che non si parla di analisi grammaticale, il termine non ha significato, se non quello di adottare implicitamente surrettizie implicazioni ideologiche, imposte dal delirio “gender” (indifferentismo sessuale). Anche se si fanno analisi ineccepibili, tuttavia, l’adozione del linguaggio del Nemico, o comunque di un linguaggio ideologico avulso dalla realtà e dalla retta ragione, è già un cedimento, un giocare sul suo campo di battaglia. Possono sembrare minuzie, ma la critica all’ideologia antiumana (di cui l’ideologia anti-maschile è solo una componente) non dovrebbe adottare il linguaggio antiumano, coniato dall’ideologia che deve combattere.

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