La donna è come una cammella, la cammella è come una donna

Nella cultura tradizionale somala, la felicità di un uomo ha un unico metro di misura: il numero di cammelli in suo possesso. Perciò i loro aedi non celebrano le virtù della femmina umana, ma della cammella.

In una ormai “storica” (seppur risalente al 1993) antologia della poesia somala, il linguista polacco Bogumił Andrzejewski (1922-1994), assieme alla moglie Sheila raccolse, traducendoli in inglese, alcuni canti pastorali somali.

Il più conosciuto è di certo quello del “bardo nazionale” Raage Ugaas (secondo le fonti vissuto tra il XVIII e il XIX secolo), Geela (“La Cammella”), del quale riportiamo qualche verso in versione originale, nella traduzione in inglese e in una resa italiana.


Giunge il giorno e lei si alza e si affaccenda
Dà da mangiare al suo cucciolo e poi per un istante
si constata il flusso del suo dolce nettare

Oh tu che mi doni
il dolce suono
del tuo bramito
Oh tu che così allegramente
fai risuonare
il tuo gorgogliante grugnito,
è di te che io vo’ cantare!

Quando il cielo è privo di nuvole,
la luna si è tolta l’aureola
e il calore ardente inaridisce la terra,
molti alberi han perduto l’ombra frondosa
e le foglie del garas non son più verdi
La scorta di latte si assottiglia sempre più,
ma su di lei si può ancora contare:
non deluderà mai il suo padrone!

È di te che io vo’ cantare!
Tu che allunghi il collo per trovare le foglie
che germogliano sui rami alti da terra,
quando altrove non c’è nulla da mangiare
Guarda! La ciotola rotonda è piena di latte schiumoso!

Chi può tenere il passo
col tuo andare?
Oh silenziosa inseguitrice
dai piedi delicati
è di te che io vo’ cantare!

Morning has come, and she stirs and bustles.
She feeds her calf and then for a while
The flow of her milk is checked.
O you who make such a sound of beauty with your bellow
O you who so blithely give voice to your bubbling growl
It is you I call!

When the sky is shorn of clouds
And the moon has doffed her halo,
Then parching heat dries up the land.
Many trees have lost their leafy shade
And even the garas leaves are green no longer.
The supply of milk grows scanty –
But on her one can still depend
For she will never fail her master.
It is you I call!
You who stretch your neck to find the leaves
That sprout on branches high above the ground,
When elsewhere there is nothing to be found –
See! The round bowl is full of frothy milk!

O soft-footed soundless stalker
It is you I call!

Gugucdeeda arooryiyo
Isku gaagixinteeda
Away gooha wanaajaay
Gurxankii habilaad?!

Haddii giirku dareero
Barqin loo ganbaraasho
Adhina bowdka ku gaabto
Guduudkeeda arooryo
Indhaha waa gashinkoodee
Away reera gobeeyaay
Xeryihii ginginnaa?!

Cirka oo geddawaamay
Dayaxoo galka diidey
Dhulka oo gasariiray
Dhirta oo gabalkeed iyo
Garaskiiba hadh waayay
Caanahii gaasir noqdeen
Iyadaa la gumriyoon
Qareenkeeda gabayne
Away geedaha laacaay
Xunbadii gedfaneyd?!

Il componimento ci fa comprendere l’importanza di cogliere nuove prospettive sulla femminilità soprattutto in questo 8 marzo,  che, come attestano le stesse organizzazioni femministe, non è più confinato nell’angusto confine dell’esser donna in senso meramente biologico, ma si allarga a “lesbiche, froce, persone bisessuali, trans, queer, intersex, asessuali, su persone povere, anziane, migranti e seconde generazioni, con disabilità, minori, sexworkers e detenute”.

Seconde generazioni, aggiungiamo, che seppur perfettamente integrate nella cultura consumistica e globalista contemporanea, non dovrebbero comunque dimenticare le usanze dei padri. E chissà che già dall’anno prossimo la nuova frontiera dell’8 marzo non sarà più il transfemminismo, ma il transpecismo.

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