Esiste tutta una serie di pregiudizi contro le spese militari, espressione di un intreccio di ragioni politiche, culturali ed economiche che dilagano nella maggior parte delle nazioni occidentali e godono di popolarità specialmente in quei Paesi che dalla fine della Seconda guerra mondiale hanno maturato una mentalità disfattista per intuibili motivi storici (Italia e Germania, tanto per citare).
Tuttavia è piuttosto agevole sgombrare il campo dai vari sillogismi pseudo-pacifisti: in primis ricordando che la pace si ottiene solo preparandosi alla guerra, non solo in virtù del noto adagio latino ma anche della inossidabile affermazione del von Clausewitz, ovvero che il più pacifico degli uomini è in verità proprio il conquistatore, poiché egli non sparerebbe un colpo se avesse la garanzia di ottenere automaticamente la sottomissione di chi intralcia le sue imprese.
Peraltro, anche il mainstream attuale sembra avere una qualche contezza di ciò nel momento in cui deve far propaganda sul conflitto tra Ucraina e Russia, salvo poi, magari un attimo dopo, riprendere la solita retorica irenista quando deve discutere della spesa militare italiana (anche pensando il nostro Paese come pura espressione di un fronte meridionale dell’Alleanza Atlantica).
Un altro pregiudizio duro a morire riguarda la convinzione che ogni centesimo speso per gli armamenti vada a discapito di tutti gli altri settori, dall’istruzione alla sanità al welfare in senso lato. Eppure è un dato di fatto che gli investimenti nel campo della difesa sono quelli che assicurano le maggiori ricadute positive nella prospettiva del benessere generale: sia dal punto di vista dello sviluppo tecnologico (si pensi solo alla nascita di internet nel contesto della minaccia di apocalisse nucleare, lasciando da parte le utopie sulla necessità degli esseri umani di comunicare tra loro a livello globale) sia per quanto riguarda il mero aumento del Prodotto Interno Lordo.
Ovviamente ciò non equivale a dire che bisogna spendere il 100% di fondi pubblici in ambito militare, anche perché numerosi studi dimostrano che se l’aumento di un punto percentuale della quota di spesa militare sul PIL corrisponde a un incremento tra lo 0,15% e lo 0,24% dello stesso, è anche vero che tale relazione positiva tende a sfumare nel momento in cui la spesa supera il 5% del Pordotto Interno Lordo.
Nell’utilissimo volume (seppur ormai datato, essendo del 2007) La difesa europea, il grand commis della difesa Alessandro Pansa porta come esempio di spesa militare produttiva nientedimeno che l’Italia tra gli anni ’50 e ’70 del secolo scorso, all’epoca in cui la classe dirigente riuscì a creare “un circolo virtuoso” tra sviluppo tecnologico, politica industriale e diplomazia. Un modello che l’Unione Europea ha snobbato e che invece risulta ancora valido per gli Stati Uniti (anche per inerzia) ed è stato poi abbracciato dalla Cina, che grazie a una campagna pianificata di investimenti sta sempre più velocemente appianando il divario tecnologico con l’Occidente.
Da una prospettiva “culturale”, per così dire, è un dato di fatto che il settore militare sia praticamente l’unico esente dal terrorismo psicologico nei confronti degli investimenti pubblici: anche il piagnisteo dei “pacifinti”, oltre a esser stato fortemente minato dalle posizioni estremiste assunte nei confronti delle guerre del post-89 volute dalle amministrazioni democratiche americane (Balcani, Nord Africa, Siria e Ucraina), al giorno d’oggi risente delle paranoie sul “debito insostenibile” e dunque non riesce più nemmeno a credere nei propri patetici slogan del tipo “per ogni carro armato in meno possiamo costruire una scuola o un ospedale in più”; certe geremiadi sembrano ormai ispirate solamente a un intreccio di austerity, decrescita e cupio dissolvi.
Un altro fattore essenziale, oggi più importante che mai, è rappresentato dalla natura intrinsecamente “nazionale”, se non “autarchica”, dell’industria bellica: in un contesto dove sembra quasi obbligatorio gettare il patrimonio storico di uno Stato in pasto al “mercato globale”, il settore degli argomenti agisce quasi come forza contraria, proiettato tutto in una dimensione “domestica” con buona pace di liberisti e globalisti che devono inchinarsi alle “questioni di sicurezza nazionale”. Questo spiega anche il perché un’impresa come Finmeccanica non solo non abbia subito lo smantellamento al pari di qualsiasi altro colosso pubblico nazionale, ma abbia aumentato la propria competitività in un contesto che viene raccontato come inadatto alle partecipate.
In conclusione è più che puerile (perché anche un bambino può rendersene conto) confidare che un calo, anche drastico e globale, degli investimenti nel settore bellico possa in qualche modo neutralizzare l’eventualità di un conflitto. Da questo punto di vista l’unica posizione intelligente dei “pacifisti” dovrebbe esser quella di pretendere una medesima “prodigalità” da parte dello Stato in altri settori, piuttosto che spacciare la favola (subdolamente liberista) che un fucile in più in un arsenale equivalga in modo matematico a un posto letto in meno in un ospedale.