Nella ricerca spasmodica di tracce dell’influenza spagnola nei diari novecenteschi, di un qualche appiglio contro l’odierno “culto della peste”, l’unica testimonianza confacente alla mia sensibilità attuale mi pare sia solo quella di Giuseppe Prezzolini (1882–1982), che le dedica giusto un paio di righe.
Lo scrittore l’aveva avuta: due colpi di tosse e via. Non degnandola di alcun riguardo, la liquida una pagina di diario nel novembre 1918: “Febbre, reumatismo, spagnola, dentro e fuori di letto. Gente che muore del nostro Comando e delle truppe dopo essersi salvati per quattro anni”. Il rammarico è perlopiù di rischiare di morir di febbre e non di guerra (lo scrittore aveva deciso di andare al fronte dopo Caporetto, trascorrendo gli ultimi scorci del conflitto con gli arditi). Gli unici sintomi riportato sono “mal di testa, raffreddore e un po’ di freddo per l’umido preso ieri” (si riferisce alle sue disavventure sul Piave).
A preoccuparlo in realtà sono solo la consorte e i figli: “Dolores [Faconti, la prima moglie] è malata” (annota il 16 novembre 1919) e “Tutto aprile passato in timore per ragazzi malati” (7 maggio 1920). Non è però tanto la spagnola a crucciarlo, quanto la costituzione fragile dei rampolli: “Linfatici, deboli nei bronchi e polmoni, spesso raffreddati, hanno catarro, bronchiti, torace stretto, segni di anemia, eccetera”. Il maggiore guarisce dopo un mese “senza che si sia capito bene cosa abbia avuto”: unico rimedio, spedirli tutti al mare con gli ultimi risparmi.
La vera peste, anche a quei tempi, è un’altra:
“Sento oppressione invincibile, peso di catastrofe imminente, stiramento doloroso dei nervi, disgusto di tutti e di me stesso. morire, mi pare, senza rammarico, tanto l’esistenza mi par ridotta al puro necessario. Tutto mi par ridicolo e vuoto. Ogni tanto questi dissensi mi ruban intere giornate: buchi” (5 febbraio 1922).
Lo scoramento nel Nostro si manifesta in un pacato e perplesso digust (cita H. L. Mencken, l’amore è a wholesale diminishing of disgust); in altri invece, come in un certo Benito (che Prezzolini all’epoca frequentava spesso), si fa militanza. Il bolscevismo, per il futuro Duce, è appunto la vera peste: “Se l’Europa è destinata a passare per quest’epidemia, meglio esserci alla testa”, sintetizza così lo scrittore i primi vagiti dell’Uomo della Provvidenza del 5 gennaio 1919. Ma già due mesi dopo la marcia su Roma, lo scetticismo del Nostro verso il fascismo lo porta a definirlo “un bolscevismo alla rovescia”. Stesso ceppo politico? Ancora difficile capirlo, soprattutto per noi alle prese con la peste che ci governa e si è imposta nelle nostre vite. Dalla quale speriamo presto di liberarci, ché poi ci sarà tutto il tempo di fare i conti anche col coronavirus.