Tommaso d’Aquino contro il “Papa dei migranti”

Dal momento che il teatrino clerico-immigrazionista bergogliano ha raggiunto l’ennesimo apice con l’invito di una nota “zekka di Stato”, perfetto rappresentante dell’anarco-tirannia che in Italia si fregia anche di connotazioni religiose, al Sinodo dei vescovi (e si tratta di un figuro che si vanta di non aver dovuto “andare a lavorare in un bar” grazie ai soldi dei preti), vorrei ricordare cosa sosteneva Tommaso d’Aquino sulla questione, richiamando un grande articolo di don Stefano Carusi del 30 aprile 2017 (Aiutare gli stranieri più dei compatrioti è immorale?).

Santa Elisabetta d’Ungheria aiuta il suo prossimo

San Tommaso, nella questione 26 della Secunda Secundae della Somma Teologica, esordisce con un argomento tratto da Agostino: da una parte, “tutti gli uomini devono essere amati allo stesso modo” [omnes homines aeque diligendi sunt], tuttavia è anche vero che non è possibile aiutare tutti e che bisogna tener conto del fatto che ad alcuni siamo uniti per circostanze di luogo e tempo o per qualsiasi altro motivo che ad essi ci stringe quasi ci fossero dati “in sorte” [quasi quadam sorte iunguntur].

Dunque, nonostante dobbiamo desiderare per ogni uomo il bene supremo della vita eterna (la cui natura è la stessa per tutti, senza distinzione di razza, nazionalità o ceto), non per questo ne consegue l’obbligo di amare ugualmente tutti, poiché l’esercizio della carità va ordinato in relazione alla situazione specifica e concreta di ciascuno di noi.

Gli esseri umani devono provare verso tutti gli altri quello che l’Aquinate definisce benevolentia dilectionis (“amore di benevolenza”), che letteralmente significa volere il bene per tutti gli uomini, ma essendo che in concreto “voler bene a tutti” spesso si traduce nel non voler bene a nessuno, a livello di beneficentia bisogna amare in maniera differenziata il prossimo, a seconda del legame che può avere con noi.

San Tommaso afferma apertamente che è un peccato più grave negare l’amore a una persona a noi oggettivamente più vicina, piuttosto che rifiutarsi da amare chi è lontano [Sed gravius peccat qui agit contra dilectionem aliquorum proximorum quam qui agit contra dilectionem aliorum]. A supporto di tale tesi, il Doctor Angelicus cita il Levitico, dove è scritto che “chiunque maledirà suo padre e sua madre, sia messo a morte” [qui maledixerit patri aut matri, morte moriatur], pena non prevista per coloro i quali maledicono altri [quod non praecipitur de his qui alios homines maledicunt].

Più grave per un figlio è quindi provare odio per i propri genitori, che astio per una persona qualsiasi: ne consegue che dobbiamo amare di più i nostri prossimi piuttosto che i lontani, in ragione del legame oggettivo che ad essi ci unisce, legame che non può essere stabilito né dal nostro arbitrio né dal terzomondismo imperante.

Se nei confronti di tutti gli uomini deve valere il desiderio per essi dell’eterna beautitudine, per quanto riguarda l’amore di carità è necessario mettere in pratica diversi gradi di beneficenza da procurare al prossimo, proprio a seconda della sua “prossimità”: come sosteneva l’Apostolo, chi non si prende cura dei propri familiari è peggiore dell’infedele (1 Tim 5, 8). Ciascuno deve calibrare l’affetto di carità al suo essere, alla situazione in cui la Provvidenza l’ha messo, alla famiglia nella quale è nato, alla patria in cui è cresciuto.

L’ordine stesso della carità obbliga ad amare maggiormente prima i consanguinei, poi coloro ai quali siamo legati per altre ragioni, come i compatrioticoncittadiniconnazionali (definite come volete quelli che Tommaso chiama concivis). Verso i “prossimi” (o “più prossimi”) abbiamo un “mandato divino d’amore” (così padre Carusi), perché è Dio che lo vuole: “Quelli che sono a noi più congiunti, sono da amare maggiormente secondo la carità, sia perché sono amati più intensamente, sia perché sono amati sotto più aspetti [Illos qui sunt sibi propinquiores intensiori affectu diligit homo ad illud bonum ad quod eos diligit, quam meliores ad maius bonum]”.

In virtù della nostra origine naturale dobbiamo amare i consanguinei [consanguineos], mentre a livello sociale e politico i concittadini [concives], e in contesti bellici i nostri “commilitoni” [commilitones]. Questo è l’ordine delle cose che, come dice don Carusi, “l’ordine soprannaturale non va a scardinare, ma a perfezionare”. Tale dovere vale naturalmente anche per i governanti (e i pontefici…), che in primis debbono occuparsi dei concittadini della propria Civitas prima che di quelli d’altre città.

Addirittura don Carusi avanza il dubbio, sempre sulla scorta (aurea) dell’Aquinate, che certi benefici elargiti troppo facilmente e senza alcun sforzo da parte dei beneficiati, per giunta spesso offerti dalla prospettiva di un altruismo patologico (togliendo il dovuto ai figli o ai prossimi a vantaggio dei lontani o dello straniero), possono generare anche il disprezzo di colui che riceve i benefici e ritorcersi contro società che hanno rinnegato, oltre la giustizia, anche l’ordine che ci offrono la fede e la carità.

L’amore di carità, prosegue il prelato autore dell’articolo,

«deve rivolgersi più intensamente ai concittadini proprio relativamente a quelle cose che riguardano la vita civile […]. Il sostegno derivante dall’intervento pubblico, per esempio, deve rispettare questa maggiore intensità che comporta diseguaglianza d’amore e di trattamento fra i connazionali e gli stranieri. Solo così l’intervento civico potrà essere veramente giusto e soprattutto veramente caritatevole».

E così conclude:

«Alla luce dell’insegnamento di San Tommaso d’Aquino non appare conforme alla dottrina cattolica sulla carità affermare che gli stranieri vadano amati e beneficiati in maniera uguale rispetto ai concittadini. Elevare alla dignità di principio che si debbano trattare in maniera egalitaria tanto nell’ambito familiare che in quello della Civitas, i figli propri e i figli degli altri, i propri concittadini e gli stranieri, i figli della Chiesa e gli infedeli musulmani, non solo non è conforme al diritto naturale, ma appare anche in contrasto con la Divina Rivelazione e la Tradizione cattolica che ci insegnano la carità ordinata».

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