E se la vera “Matrix” fosse un’oscura eresia ebraica?

Mi segnalano un tweet in cui Boni Castellane cita (senza elaborare oltre) un passaggio della nota raccolta di saggi di Gershom Scholem L’idea messianica nell’ebraismo (1974; tradotta in italiano da Adelphi nel 2008):

«Tutti i precetti positivi e negativi della Torah di beri’ah saranno ora reinterpretati alla luce del mondo di atzilut, nel quale, com’è scritto in molte fonti cabbalistiche, non esistono unioni sessuali proibite».

Questo è senza dubbio un modo intelligente di evocare la questione delle questioni senza incappare in spiacevoli risvolti giudiziari, anche se il rischio di finire in tribunale è sempre presente, soprattutto nel momento in cui, per comprendere taluni aspetti della nostra attualità, non rimane che nominare l’Ebreo. Di sicuro tale allusione allo Scholem, volta eventualmente ad aprire nuove prospettive sul contemporaneo, non può essere assimilata a quella forma di “antisemitismo da osteria” che, almeno fino all’ultimo conflitto mondiale, era trasversale al lessico di tutti i ceti del Bel Paese ma che al giorno d’oggi non è obiettivamente recuperabile, sia per l’esito del conflitto appena citato, sia per l’opera di “giudaizzazione” di ogni ambito della cultura (in senso lato) italiana, nonché europea e occidentale, posta in essere a partire dalla seconda metà del secolo scorso.

Giusto per fare l’esempio più recente, la necessità di nominare l’Ebreo non ha nulla a che fare con la sparata di un assessore comunale di Ancona che durante una conferenza stampa ha affermato di essere “molto ebrea” nella gestione dei fondi pubblici: pur essendo anche questo uno stereotipo presente da secoli nel nostro parlare quotidiano (come in alcune espressioni dialettali, si veda il romagnolo rebechino, “rabbino”, per indicare lo spilorcio), esso è da tempo caduto in disuso e difficilmente l’italiano medio lo ripescherebbe in maniera spontanea persino in una discussione informale (figuriamoci in un consesso istituzionale o presunto tale). Certo fa specie che la signora si sia semplicemente giustificata con un “l’ho detto nel senso buono del termine, sono marchigiana e ho le braccia corte”: il fatto che non ci sia stata alcuna pressione per farla dimettere è forse un altro indice dei tempi, che andrebbe semmai affrontato in sede opportuna (dunque non questa). Qui si voleva soltanto sostenere che, nel bene e nel male, dopo decenni di Holocaust e Schindler’s List, non si può più a “cuor leggero”, cioè in maniera ideologicamente e politicamente neutrale, apostrofare una persona tirchia come “ebreo” o “rabbino”.

Una volta chiarita tale differenza essenziale, torniamo alla citazione di Boni Castellane. Per fornire in due parole un contesto, la “reinterpretazione” di cui si parla risale a un’eresia antinomica ebraica fondata dal cabalista sefardita Sabbatai Zevi (o Shabbetay Tzevy, per usare la traslitterazione cara allo Scholem), che nel XVII secolo agitò le comunità ebraiche di mezzo mondo con la sua dottrina basata sulla violazione di ogni precetto religioso e civile, dall’apostasia collettiva all’obbligo di indulgere in rituali orgiastici (nei quali, per l’appunto, incesto e pedofilia erano la norma).

Il passaggio in questione analizza la particolare versione dell’ebraismo propagandata dai sabbatiani (e dalle loro diramazioni): la Torah di Beri’ah (cioè della “Creazione”, espressione intesa secondo la dottrina gnostico-cabalistica delle scintille imprigionate in “scorze” o “gusci” [qlippoth] in attesa di esser liberate) sarebbe la Legge del mondo irredento dove i “santi” vivono in esilio, una Torah quindi solo esteriore rispetto a quella reale, la Torah di Atzilut (“Emanazione”) che obbligherebbe i veri ebrei a reinterpretare i precetti della Torah essoterica in senso antinomico, in particolare dal punto di vista sessuale. Gli esempi sono numerosi e riguardano soprattutto la comprensione di quelle “fonti cabalistiche” chiamate in causa dallo stesso Schloem (come nel Tiqqunei haZohar, dove è scritto che “In alto [in cielo] non vi sono leggi sull’incesto”) o dell’Antico Testamento (come in Lv 20,17, “Se uno prende la propria sorella […] è un’infamia”, dove l’ultima espressione, hesed, attraverso la polisemia dell’ebraico biblico viene trasformata  da “infamia” a “benevolenza”).

Esiste una corrente del pensiero, riconducibile a un certo tradizionalismo cattolico, che vede in Sabbatai Zevi il convitato di pietra della modernità, nonché l’ispiratore occulto di numerose “sette” politiche predominanti nello spirito del nostro tempo, talvolta in maniera palese (come nel caso dei Giovani Turchi, il movimento infiltrato dai primi apostati sabbatiani, i Dönme, che agli inizi del XX secolo liquidò l’Impero Ottomano), ma perlopiù segretamente: tale chiave di lettura gnostico-cabalistica potrebbe servire, per esempio, sia a comprendere il surreale percorso del progressismo all’inseguimento della “minoranza sessuale” più all’avanguardia, sia a svelare i fondamenti mistici, cioè irrazionali, delle ossessioni globaliste. Tanto per citare, il famigerato concetto del Tiqqun ‘olam, fatto entrare a forza nella cultura popolare, si riferisce alla “riparazione” del mondo tramite l’emancipazione delle “scintille” alienate dalla divinità nel momento in cui essa avrebbe creato il cosmo stesso, in un percorso di omogeneizzazione totale di qualsiasi elemento esistente (bene e male, innocenza e colpa, legge e crimine, mascolinità e femminilità ecc… ), il quale si concilia in modo pressoché perfetto con le istanze di chi è convinto che tutta la creazione debba essere inquadrata in un’unità pseudo-assoluta dove dominerebbero non solo l’indifferenza sessuale o etnica, ma soprattutto morale (non a caso allo scopo di realizzare il tiqqun della creazione il messia sabbatiano è costretto a porre in essere i cosiddetti ma’asim zarim, gli “atti strani” che danno compimento alla Legge nel momento in cui la infrangono).

È difficile, in effetti, ritrovare una sola traccia del “santo” nome di Sabbatai Zevi nei propugnatori dell’antinomismo degli ultimi secoli; tuttavia è capitato talvolta che qualcuno di essi, magari per opportunismo o semplice ingenuità, se lo sia lasciato scappare. Il caso più midcult a cui potrei pensare è quello del celebre Roberto Sav1an0, salito giovanissimo alla ribalta per un’inchiesta romanzata sulla camorra e mai più sceso dal piedistallo di moralizzatore delle masse. Si dà il caso che costui, nel settembre 2007, si sia fatto sfuggire il nome del “maestro segreto” (schermendosi immediatamente) al quotidiano israeliano Haaretz:

«[Ho origini ebraiche] da parte di mia madre, ho fatto delle ricerche e ho scoperto che ho radici sefardite. Mio nonno mi ha insegnato il giudaismo, mi ha insegnato la Torah. Ero molto incuriosito da Sabbatai Zevi e molto interessato al movimento anarchico ebraico. Questo è l’ambiente in cui sono cresciuto, ma non ho mai voluto renderlo pubblico. È l’ultima cosa di cui ho bisogno. In Italia sembrerebbe qualcosa di esoterico, sarebbe un errore [parlarne apertamente]».

Per quanto possa sembrare ridicolo prendere sul serio un personaggio che, almeno a livello intellettuale, si colloca puntualmente al di sotto del più mediocre degli arruffapopoli, bisogna tuttavia osservare da una prospettiva meramente culturale (escludendo perciò ogni riferimento all’ebraismo dal punto di vista etnico o religioso) una sorta di ispirazione sabbatiana nell’opera dello scrittore, nella misura in cui i suoi propositi legalitari si sono tradotti in un’esaltazione acritica della criminalità organizzata, con la messa in piedi di un’industria dell’intrattenimento basata sulla spettacolarizzazione del fenomeno, fino a rendere personaggi un tempo rappresentati in maniera negativa come superuomini immuni a qualsiasi “Legge”.

Tale irresistibile discesa verso l’abisso caratterizza molti degli aspetti dell’era in cui viviamo, anche se il modo di procedere delle forze antinomiche è larvato e ineffabile. Nominare l’Ebreo è già di per sé la manifestazione di un desiderio di verità, che dovrebbe essere portato alle estreme conseguenze senza cadere in quei tranelli della storia che continuano a ostacolare lo svelamento dell’abominio.

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2 thoughts on “E se la vera “Matrix” fosse un’oscura eresia ebraica?

    1. Grazie per la citazione, anche “Le tre vite di Moses Dobrushka” è in effetti un volume essenziale dello Scholem

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