La Giornata dell’Ebreata

Nella lingua inglese, il verbo to jew (o to jew down) secondo i dizionari indica l’azione di “contrattare per ottenere un prezzo inferiore per un bene o un servizio” (oppure “contrattare in modo aggressivo”) e negli Stati Uniti d’America è ancora d’uso comune, tanto da essere annoverato frequentemente nel linguaggio istituzionale (con immensa onta delle comunità ebraiche, che tuttavia devono arrendersi al fatto che l’espressione sia considerata idiomatica seppur basata su un “falso stereotipo”).

In italiano non esiste un corrispondente del verbo, ma è presente nel nostro lessico un’espressione, “ebreata”, che risale almeno al XIX secolo: la usa, per esempio, nelle corrispondenze private il Belli per riferirsi a un celebre impresario dell’epoca, Vincenzo Jacovacci, che sarebbe temuto dal prestigiatore Bartolomeo Bosco per la sua nota spilorceria (“Bosco è inquietissimo per le ebreate del Sig. impresario Iacoacci”). Anche negli epistolari di Giuseppe Verdi lo Jacovacci è talvolta apostrofato con quelli che attualmente verrebbero considerati stereotipi antisemiti (in una lettera il Maestro auspica che l’impresario “non si metta in mente di fare l’ebreo” per l’allestimento de Un ballo in maschera al teatro Apollo di Roma). Lo scrittore statunitense William Dean Howells (1837–1920) nelle sue memorie italiane registra l’utilizzo dell’espressione a Verona, verso la fine dell’Ottocento, in una discussione in cui un amico comune viene accusato di “ebreata” per aver dato una zolletta di zucchero come elemosina a un mendicante venuto a domandare la carità ai tavolini di un caffè di Piazza Bra dove stavano pasteggiando.

Il termine ha poi goduto di una più ampia diffusione, seppur “pompata” da motivi politici, nella pubblicistica fascista posteriore alle leggi razziali. Tale abuso non sembra tuttavia consentire di negare ad espressioni come questa una qualche popolarità in tempi non sospetti, se così si può dire. Ciò solamente per testimoniare il fatto che prima della Shoah, in Italia, come in Europa e nel resto d’Occidente, l’antisemitismo fosse trasversale ai ceti sociali come parte di una serie di cliché verso qualsivoglia minoranza etnica, religiosa e culturale (non mettiamoci qui a ricordare il razzismo anti-meridionale dei padri risorgimentali), senza tuttavia che tali “manifestazioni retoriche” sfociassero in violenza fisica o pogrom.

È quantomeno ardito voler discutere tale tema proprio oggi, nell’ennesima “Giornata della Memoria” (giunta alla XXIII edizione) che di anno in anno più che stabilire un patrimonio comune di esperienze e testimonianze a cui far riferimento, rischia di contribuire alla liquidazione e alla riduzione in poltiglia (per prendere a prestito le formule dei sociologi Zygmunt Bauman e Giuseppe De Rita) della nostra società. Ma forse proprio per tale motivo è necessario parlar chiaro in determinate occasioni, senza le spade di Damocle di leggi speciali e stigmi sociali, soprattutto di fronte alla retorica tutt’altro che conciliante proveniente dal mondo ebraico italiano.

Penso, per portare il caso più recente, alla filippica dello scrittore Dario Calimani, presidente della Comunità ebraica di Venezia, che ha avuto luogo al Teatro La Fenice durante la cerimonia inaugurale del 23 gennaio 2022 per la fatidica “Giornata” che negli ultimi anni si è allargata così tanto a livello istituzionale, mediatico e scolastico da assumere i contorni di una “settimana santa” della Memoria. Introdotto da un cerimoniale solenne, attorniato da una platea e da un’opinione pubblica in ossequioso silenzio, con il sindaco della sua città impegnato a baciargli le mani, Calimani ha trovato modo di affermare che “in nome di una pretesa pacificazione nazionale, si è finto che nulla fosse successo” e che “non si può chiedere a me, ebreo italiano, di aderire ad una memoria condivisa”. Inoltre ha attaccato, senza mai nominarlo, l’attuale presidente del Senato, prendendo a prestito una sua boutade su una presunta collezione di busti mussoliniani, come se oltre cinquant’anni di sostegno sfegatato da parte di Ignazio Benito Maria La Russa nei confronti di Israele non contassero nulla!

A parte che se davvero si volesse rappresentare una voce di dissenso, si dovrebbe come minimo evitare di partecipare a certe kermesse (sono sicuro che esista un corrispondente in ebraico moderno, o almeno in yiddish, del detto “Volere la botte piena e la moglie ubriaca”). A parte che basterebbe cercare il nome di Dario Calimani su Google per scoprire una ridda di articoli filo-israeliani da far impallidire lo zelo sionista dei missini (se il Senato italiano ricicla i “fasci”, cosa dovremmo dire di Otto Skorzeny assoldato come killer dal Mossad? Siamo seri).

In ogni caso l’eterno vittimismo degli ebrei dei Paesi che hanno perso la Seconda guerra mondiale è senza dubbio controproducente per qualsiasi causa si voglia difendere. E qui finalmente arriviamo al punto: la tesi provocatoria che voglio avanzare nella “Giornata” (in)fausta è che gli italiani abbiano abbandonato il gergo antisemita non per qualche evoluzione spirituale o  morale, ma semplicemente perché gli ebrei sono usciti dalla storia.  Dalla nostra storia, anzi.

Concedetemi un breve Amarcord: anche se talvolta assumo pose à la Dietrich Eckart o à la Alfred Bäumler, il mio presunto “antisemitismo” (che non è affatto tale) nasce principalmente da quegli orrendi cartoni animati americani che hanno riempito la mia adolescenza come quella di tanti altri (mi riferisco a Simpson, Griffin, American Dad e robaccia assortito). È ridicolo porre la questione in siffatti termini, ma bisogna essere assolutamente onesti se si vuole infine giungere a una qualche obiezione sensata nei confronti di un “sistema” totalmente piegato sui suoi rituali.

Vi chiedo dunque di immaginare un ragazzino italiano allevato sin dalle elementari con interminabili geremiadi sulla bontà assoluta degli ebrei che poi tornando a casa alle due di pomeriggio si imbatte su una rete Mediaset (ITALIA… UNO!!!) nelle battute antisemite più becere e impresentabili: l’ebreo col nasone rappresentato come campione di spilorceria, avidità, doppiogiochismo, pavidità e opportunismo. Ha senso tutto questo?

In effetti, sì, ha un senso, se ci concentriamo sul fatto che gli stereotipi antisemiti negli Stati Uniti discendono senza soluzione di continuità dalla Dichiarazione di Indipendenza: per quanto riguarda le altre nazioni occidentali, invece, la “soluzione” risiede naturalmente nella Shoah. Ciò che intendo dire è quell’antisemitismo che, sempre secondo Calimani, in Italia allignerebbe dappertutto (“nei social, negli stadi, nelle aule colte delle università”), in verità assomiglia più a una “ombra” del filo-semitismo istituzionale.

Dato che non mi piace filofesseggiare, propongo un altro esempio concreto dal mio Cuore interiore: quando, nei lontanissimi anni ’90, in un oratorio della provincia milanese proiettarono un documentario sull’Olocausto ai comunicandi, il giorno dopo i “Franti” della quinta elementare cominciarono a inneggiare a Hitler e a incidere svastiche sui banchi. Si tratta di una dinamica facilmente intuibile: un bulletto che vuol provocare a tutti i costi di certo non si mette a dileggiare simboli nei quali nessuno crede più, ma mira dritto alle midolla del “sacro” percepito dall’inconscio collettivo. L’antisemitismo, in tal caso, assume la stessa natura metastorica (ma giungerei a definirla “spettrale”) che l’ebreo in sé ha assunto nelle vesti di “vittima perenne”: il riferimento è più a concetti, miti e ideali, che non a individui in carne e ossa.

È perciò innegabile che una sparata antisemita assuma un senso completamente diverso se pronunciata nei bassifondi nuovaiorchesi piuttosto che in un paesotto del frusinate (a scanso di equivoci, sto usando il “piuttosto che” come andrebbe usato, e cioè come locuzione congiuntiva e non disgiuntiva): probabilmente è questo il vero motivo -seppur “implicito”- per cui persino le televisioni commerciali non si preoccupano di trasmettere in pieno pomeriggio caricature di ebrei che in un cartone italiano verrebbero immediatamente paragonate alla peggiore propaganda nazifascista.

In conclusione, si delinea una singolare dialettica tra antisemitismo e filosemitismo: il fatto che non si possano più utilizzare espressioni come “ebreata” nella lingua italiana indica che lungi da essere entrati in una nuova epoca di fratellanza universale e buoni sentimenti, si è semmai adottata la logica del de mortuis nil nisi bonum verso gli ebrei reali. Che proprio a causa di ciò dovrebbero totalmente assimilarsi al “sistema” e difenderne a spada tratta anche le storture e le contraddizioni, in coerenza con il ruolo di “angeli profani” che hanno voluto volontariamente o meno assumere. Questo mi sembra l’unico senso costruttivo che si possa dare alla “Giornata della Memoria” nel contesto attuale. A meno di non volerla ribattezzare “Giornata dell’Ebreata” esclusivamente allo scopo di suscitare un dibattito e non per sterile e inutile provocazione.

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