Qual è stata la vostra Giornata della Shoah preferita? In cima alla mia top ten c’è quella del 2016, che cadde in contemporanea con la visita dell’allora Presidente iraniano a Roma, scatenando le reazioni furibonde dell’ebraismo italiano.
All’epoca un rabbino definì l’arrivo di Rouhani una “intollerabile celebrazione dei negazionisti”, per ovvie polemiche geopolitiche mascherate da ragioni storiche: tuttavia, c’è da ricorda che il più grande “negazionista di stato” in ultima analisi si è rivelato essere il premier israeliano Benjamin Netanyahu, il quale annovera tra i punti fermi della sua azione politica la convinzione che che fu il Muftì di Gerusalemme a convincere Hitler a sterminare gli ebrei piuttosto che deportarli (una tesi che, per inciso, in alcuni Paesi europei gli costerebbe un processo).
Non è peraltro incoraggiante che certe argomentazioni siano state sostenute da personalità ebraiche decisamente più illustri dal punto di vista culturale come il rabbino Giuseppe Laras (1935-2017), che sul “Corriere della Sera” (La lotta all’antisemitismo come strategia della civiltà, 25 gennaio 2016) scrisse che:
«Può essere […] che alcuni fatti siano stati troppo sottostimati, come, per esempio, il rapporto, tutt’altro che occasionale e trascurabile, tra nazismo e Islam jihadista, quest’ultimo nutrito ed eccitato dalla Germania guglielmina prima e dal nazifascismo poi».
Se le parole hanno ancora un senso, questo è revisionismo (non che sia un crimine… anzi, lo è!). Bisognerebbe domandarsi perché sia in atto da anni il tentativo di addossare la responsabilità della Shoah agli arabi. È probabile che ciò nasca dalla posizione paradossale assunta dagli ebrei d’Europa nei confronti dell’immigrazione: da un lato essi sono costretti a mandar giù il paragone tra profughi e vittime dell’olocausto, pena la scomunica delle élite; dall’altro però non possono fare a meno di provare una qualche inquietudine di fronte all’occupazione di quartieri storici delle grandi e piccole città da parte di giovani arabi sempre più agguerriti.
Se per assurdo Netanyahu riuscisse a imporre la sua interpretazione se non agli storici almeno alle opinioni pubbliche occidentali, la destra israeliana e quella europea potrebbero saldarsi in un fronte unico anti-islamizzazione (al momento la liaison, nonostante gli sforzi di entrambe le parti, stenta a decollare).
Lasciando da parte gli scenari politici, veniamo alla “Giornata”. Il nome ufficiale della commemorazione stabilito dalle Nazioni Unite è Holocaust Remembrance Day, ma ogni Paese ha preferito nominarla e celebrarla a propria discrezione. Fa specie, tra le altre cose, che la data scelta dalle Nazioni Unite non coincida con quella di Israele (stabilita decenni prima) e che in molti Paesi la ricorrenza assuma specifiche caratteristiche nazionali: in Olanda è incorporata in una versione laica del 2 novembre, in Bulgaria è il “Giorno della Salvezza” e viene festeggiato in altra data (forse per marcare la differenza tra chi ha salvato i propri ebrei e chi no); negli Stati Uniti ce ne sono addirittura tre (una delle quali è stata creata su proposta di Steven Spielberg).
Non sono questioni secondarie, poiché non è chiaro se in tale liturgia laica gli ebrei debbano ancora svolgere qualche ruolo. È un dato di fatto che negli ultimi anni le critiche più pungenti siano partite da esponenti della cultura ebraica italiana (gli unici peraltro che possano permettersi toni così aggressivi nei confronti dell’evento).
Il dilemma che nasce dalla “Giornata” si può sintetizzare così: se su questa data si vogliono gettare le fondamenta di una nuova religione civile, allora la rimembranza deve estendersi a tutte le piccole e grandi tragedie dell’umanità e fare del proprio oggetto un qualcosa di talmente universale e generico da abbandonare ogni contestualizzazione storica. Una celebrazione del genere perderebbe tuttavia il suo scopo, che è quello di impedire il verificarsi di una nuova Shoah, dal momento che molti “celebranti” non trovano nessuna contraddizione nel credere che i palestinesi di oggi siano gli ebrei di ieri e che Israele sia colpevole di genocidio, così come altri non percepiscono la contraddizione tra le odierne attestazioni di antirazzismo e l’esodo di migliaia di ebrei dalla Francia che lo stesso antirazzismo ha prodotto.
Come soluzione di comodo, le opinioni pubbliche dei Paesi europei hanno innalzato agli altari solamente gli “ebrei morti” (l’espressione è di Elena Loewenthal, prendetevela con lei), impegnandosi nel fare di costoro le uniche vittime meritevoli di Memoria: gli eventuali accenni a zingari e omosessuali servono per cacciare ancora più indietro nella macabra graduatoria, fino a un occultamento che sa di censura, i dissidenti politici (ma in epoche meno bipartisan la politica fondamentalmente rappresentò l’unica chiave di lettura di un genocidio).
L’alternativa che i critici propongono è di santificare gli “ebrei vivi”, il che diventa incredibilmente complicato a meno di non voler trasformare la celebrazione in pura propaganda oppure in una festa religiosa tout court, allineandola quindi allo Yom HaShoah israeliano (che per gli “Ortodossi Moderni” rientra nel calendario sacro).
Restano dunque tutte le aporie del caso. Alla fine però non si tratta nemmeno di una questione politica o geopolitica, o economica eccetera. La confusione scaturisce dagli attriti tra Memoria e Storia, da tutti gli sforzi messi in atto affinché non trionfi l’oblio: da qui anche quell’aura di religiosità che in un’epoca come la nostra non può che risultare sospetta. La prossima immersione nel Lete si avvicina sempre più ed è impossibile far rientrare la Testimonianza nella Storia senza dar vita a una fede. Sulla breve distanza, è prevedibile che la “Memoria” resterà ancora per anni impigliata tra il culturale e il cultuale.
Rispondo alla domanda su quale sia stata la mia giornata preferita – quella del 2012, in cui abbastanza dal nulla un anime in onda in Giappone (Guilty Crown per gli interessati) di stampo fantascientifico-supercazzolaro ha avuto un’improvvisa svolta col protagonista che da un piagnucoloso beta improvvisamente si pone a leader dell’organizzazione in cui era stato reclutato forzosamente e inizia a manifestare atteggiamenti hitlereschi.
Bonus point: il “livello di potere” o come stracazzo si chiamava, ora non ricordo, di Tsugumi (una delle coprotagoniste) finalmente viene svelato dopo settimane di attesa e si scopre essere ovviamente 1488.
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