
Discutendo della crisi russo-turca, Silvio Berlusconi in una lettera al “Corriere” ha ricordato i suoi rapporti personali con i leader di entrambi i Paesi (l’amico Vladimir e l’amico Tayyip), evocando l’apogeo di questa entente cordiale modellata sulla sua persona nell’ottobre 2009 a Valdaj, quando sancì in veste di Presidente del Consiglio l’accordo sul gasdotto South Stream con Putin in persona ed Erdoğan in teleconferenza (cfr. Berlusconi condivide la linea “prudente”, 26 novembre 2015).
L’incontro si svolse secondo i format più efficaci delle reti commerciali: «Ciao Tayyip», «Va bene Tayyip», incalzava B., avanzando tra una battuta sul gas e una sul calcio la proposta di un summit in Italia («E garantisco che il menù vi piacerà!») per poi congedare l’amico turco con un «Ciao Tayyip, un abbraccio fortissimo!».
Tutto sommato un successo, anche se di brevissima durata: il South Stream venne annullato dalle sanzioni europee, a Berlusconi è stato vietato per tre anni l’ingresso in Ucraina a causa della sua visita in Crimea (con la beffa di un processo per aver bevuto una bottiglia di sherry con Putin) e infine i rapporti tra Russia e Turchia sono degenerati nei modi che tutti sanno (la solita Dämonie der Macht).
[Detto en passant, stupisce che in un articolo dedicato alla politica estera dell’ex-premier non vengano citati Topolanek e il lettone di Putin. È un ulteriore sintomo del cambiamento di linea (voluto dal nuovo direttore Luciano Fontana?) da un anti-putinismo intransigente a un approccio più “disinvolto” del quotidiano di via Solferino, inaugurato dalla pubblicazione di una lettera dello stesso Berlusconi (9 maggio) contro l’assenza dei leader occidentali alle celebrazioni di Mosca per l’anniversario della fine della Seconda guerra mondiale, e sancito dalla “storica” intervista in prima pagina al leader russo (6 giugno 2015)].
Il “segreto” della diplomazia berlusconiana, conosciuta anche come “Diplomazia del cucù” o “della patata” (rispolverata in altre modalità da John Kerry), è stato la capacità di modellarsi sulle volontà degli interlocutori, assumendo, a seconda dei casi, le sembianze dell’oligarca russo, del magnate statunitense, dell’imprenditore sudamericano, dell’investitore orientale, dell’azionista saudita, dell’industriale est-europeo ecc., grazie a una serie di caratteristiche meno riconducibili alla storia personale di B. che non alla sua area politica di riferimento, le cui peculiarità sono state analizzate da Marcello Veneziani: «Una destra selvatica […] che aderisce in modo istintivo all’apparato tecnologico-mercantile del presente come unico ancoraggio di concretezza: […] la tv e il conto in banca prendono il posto del pulpito e dell’orto e diventano le nuove colonne basilari della casa»; una destra che si arrabatta agilmente «[tra le forme e le icone] dell’era della comunicazione visita e televisiva» (Cultura di destra, Laterza, 2002, pp. 16, 112).
I piccoli successi di questo approccio (non del tutto estemporaneo, come dimostra la diversa risoluzione del conflitto georgiano rispetto a quello ucraino) nascono quindi da una miscela del potenziale a-politico (o anti-politico) di Berlusconi (riconosciuto come di per sé stesso ideologico, tanto da spingere intellettuali come Mario Perniola o Valerio Magrelli ad attribuire al personaggio la realizzazione di tutte le aspirazioni sessantottesche, dal programma erotico-politico di Wilhelm Reich alla descolarizzazione della società di Ivan Illich) con una enorme capacità finanziaria, la quale ha permesso al suo detentore di esercitare quella spregiudicatezza del “mercante” che secondo Eibl-Eibesfeldt rappresenta un elemento positivo nelle relazioni tra gruppi: «Lo scambio di doni […] esprime volontà di pace e si è osservato spesso che in origine il commercio era propriamente una relazione di scambio di questo genere a vantaggio del legame; […] ancora oggi [alcune popolazioni] esercitano il commercio senza che esso sia loro necessario» (Etologia della guerra, Bollati, 1998, p. 265).
Ora che la situazione si è fatta più seria, il pericolo è che il berlusconismo “internazionale” si sviluppi in senso opposto rispetto alle aspirazioni neutralistiche e si radicalizzi nel tentativo di darsi un senso finalmente politico. Tale deriva è sintetizzata da alcune dichiarazioni eclatanti degli ultimi tempi, come quella riportata da Alain Friedman nel suo libro-intervista: «Il popolo della Crimea parla russo e ha votato con un referendum per riunirsi alla Madre Russia».
L’irritazione di esser considerato ancora un «marchand de soupes italien» (così lo definì Chirac) unita al desiderio di ottenere una improbabile riabilitazione politica («Gli altri […] dicono quello che dicevo io, senza riconoscermelo», per citare ancora l’articolo del “Corriere”), costringerà Berlusconi a rinunciare al proprio talento proteiforme e perdere la sua migliore qualità, quella appunto di essere un uomo senza qualità? Sarebbe questo un ulteriore sintomo del fallimento del percorso di de-ideologizzazione che l’umanità si era illusa di poter seguire coerentemente. Si potrebbe fare un parallelo (irriverente ma opportuno) con la carrierea politica dell’oligarca ucraino Poroshenko, il “re del cioccolato”, che ha baratto un business fiorentissimo (basato sulle esportazioni verso la Russia) in cambio di un parlamento assediato dagli estremisti, una schiera di alleati rapidamente dileguatisi e una “cura da cavallo” liberista che condannerà il suo Paese a decenni di recessione. Indubbiamente nella borghesia ucraina non ha fatto in tempo a sedimentarsi quel sentimento di ostilità verso la politica («Una cosa inventata dai perdigiorno, cioè dagli avvocati, dai politici, dai “terroni”», scriveva Saverio Vertone nel 1995) che ha caratterizzato invece gli imprenditori lombardi sin dai tempi di Renzo Tramaglino.
Con queste premesse, sarà difficile persuadere Erdoğan e Putin a riappacificarsi in qualche trasmissione pomeridiana di Mediaset. Al di là delle amicizie personali di Berlusconi, è tuttavia l’attuale crisi russo-turca a presentarsi più intricata del previsto.
Per capirne di più, ritorniamo allo storico incontro del 2009: proprio in quei giorni Erdoğan dava vita con Azerbaigian, Kazakistan e Kirghizistan al Türk Keneşi, il “Consiglio” dei popoli legati ad Ankara da storia, lingua e cultura. Poco tempo dopo (2011), la Russia creava l’Unione Economica Eurasiatica assieme a Bielorussia e Kazakistan, Armenia (2014) e Kirghizistan (2015). Tali alleanze rispecchiano fedelmente la lotta delle due potenze per ritagliarsi la propria area di influenza nella regione, l’una premendo sulle nostalgie ottomane e anche sul sentimento di rivalsa dei popoli arabi (Erdoğan ha più volte dichiarato la volontà di far saltare i confini del Sykes-Picot con tutti i mezzi consentiti dal diritto internazionale), l’altra presentandosi come benevolo gigante economico che però all’occorrenza può vantare una capacità militare da superpotenza.
Oggi il rafforzamento della posizione di Ankara all’interno della NATO è un dato di fatto: l’Alleanza ha preso atto che l’esercito turco costituisce ormai il suo nerbo militare e, a differenza di quanto accadde nella prima guerra del Golfo (quando Stati Uniti e Germania si rifiutarono di garantire alla Turchia la stessa protezione riservata agli altri alleati in caso di attacco iracheno), questa volta il Patto ha assicurato piena collaborazione sul confine medio-orientale. In questo gentlemen’s agreement rientra naturalmente la difesa delle popolazioni turcomanne siriane bombardate dai russi: è il caso di domandarsi i motivi per i quali Putin abbia voluto “tirare la corda” fino a questo punto, proprio lui che nell’intervista al “Corriere” ricordata più sopra aveva dichiarato che «solo una persona non sana di mente o in sogno può immaginare che la Russia possa un giorno attaccare la Nato». Irritare i turchi è l’ultima cosa che ci si aspetterebbe da colui che si è presentato come il “Presidente della stabilità”, quello che dopo la disfatta di South Stream andò immediatamente a trattare con Erdoğan per progettare un nuovo gasdotto.
Nasce il sospetto che Putin si stia facendo galvanizzare dall’immagine che sostenitori e detrattori gli hanno affibbiato, e che la guerra contro l’Isis ne stia accentuando la hybris politica, con la complicità dei media internazionali che, ingigantendo le capacità di un esercito che non sa usare le armi che ha rubato, ha preparato le basi per l’ennesima ultima guerra finale dell’umanità di schmittiana memoria: finalmente si sono resi disponibili nuovi “criminali internazionali” su cui testare le armi di ultima generazione.
Proprio su quest’ultimo punto è necessario spendere qualche parola in più: nelle società occidentali, in conseguenza all’abolizione dell’obbligo di leva, sta risorgendo una sorta di “bellicismo romantico” che consente ai figli di idealizzare ciò che i padri avevano imparato a odiare. Come ha rilevato l’analista americano Andrew Bacevich (È la guerra permanente dell’America…, “Repubblica”, 13 settembre 2014) «la distanza fra i militari e il popolo americano va approfondendosi. Contribuisce a sostenere politiche militari sconsiderate, infatti troppe poche persone sono coinvolte nei rischi. Obama […] promette una guerra pulita, a buon mercato, senza complicazioni. Quale sarà poi la realtà, resta da vedere».
Anche in Italia l’abolizione della naja ha fatto sì che il concetto di “guerra” riconquistasse il prestigio perduto e che gli scalmanati che un tempo affollavano le manifestazioni pacifiste (guarda caso scomparse proprio a partire dal 2005) si convertissero a un fantomatico “appellismo” capace di identificare con precisione assoluta i buoni e i cattivi di turno, invitando rispettivamente ad aiutare i primi e bombardare i secondi (magari senza confondersi troppo).
La comparsa all’orizzonte un nuovo unmenschlichen Scheusal (il “mostro disumano” di cui parla sempre Carl Schmitt) trova così terreno fertile nell’opinione pubblica: ecco i nuovi “nazisti” da sacrificare alla Societas Populorum prossima ventura (che purtroppo non sarà mai l’ultima).
Un altro importante fattore di destabilizzazione del sensus communis è stato l’avvento di Barack Obama alla presidenza degli Stati Uniti, che ha costretto tanti americanofili “de’ noantri” a identificare Vladimir Putin come l’erede spirituale della loro idea di “America”, quella, per intenderci, dei supereroi dei fumetti e degli action movie hollywoodiani. Gli pseudo-russofili che oggi idolatrano il “Presidente” ignorano che il consenso di cui Putin gode in patria nasce perlopiù da aspirazioni opposte alle loro: il suo elettorato non chiede il ripristino dei confini dell’impero zarista (o bizantino), ma pace, sicurezza e prosperità. Alla Duma i fanatici del panslavismo o dell’eurasismo sono tutti all’opposizione, e se si trovano ad appoggiare alcune iniziative putiniane è solo per opportunismo (con la speranza malcelata di creare il caos per impadronirsi del potere). Con il voto a Putin la maggior parte dei russi spera di tenere questi individui il più lontano possibile dal potere.
Uscendo dal mondo delle fiabe e dei fumetti, si può quindi comprendere quanto l’appello a una fittizia “coalizione universale” contro l’Isis sia sostanzialmente inutile a risolvere le numerosi crisi mediorientali: piuttosto che lasciarsi trascinare dalla foga di una “crociata senza scopo”, sarebbe meglio chiarire sin da subito i diversi interessi nell’area e provare a equilibrarli senza utilizzare i soliti capri espiatori.
Alla Russia in fondo non conviene stuzzicare ulteriormente uno dei pochi Paesi della NATO che non nutre complessi di inferiorità nei confronti dei suoi alleati. Per Putin la Turchia è l’ultimo ponte disponibile per tentare un nuovo ancoraggio all’Europa, prima della deriva “asiatica” che comporterebbe anche la fine della sua leadership: gli interlocutori occidentali si sono dimostrati volubili (Germania), umorali (Francia) o inaffidabili (Italia). La gazzarra sulle sanzioni (in realtà l’ennesima occasione per i Paesi europei di danneggiarsi a vicenda) ha portato Mosca a intensificare l’interscambio commerciale con Ankara, nonostante i dissidi all’apparenza insormontabili sulla Siria. Sarebbe insensato condannarsi al suicidio economico o politico per ragioni di puntiglio (in guerra esiste anche il fuoco amico); per Putin sarebbe inoltre una buona occasione per dimostrare di esser fatto di un’altra pasta rispetto ai leader occidentali.
La guerra non conviene ovviamente nemmeno alla Turchia, che ha dimostrato di avere i nervi più saldi di quanto i suoi critici pensano, dal momento che di casus belli in questi anni ce ne sono stati tanti, tra i quali il più importante l’assalto della Mavi Marmara da parte delle forze speciali israeliane (potremmo pure citare la necessità di garantire la sicurezza dei tatari di Crimea dopo l’annessione russa, la protezione dei turkmeni siriani dai bombardamenti o il sostegno indiretto di Israele ai curdi). Anche una piccola “guerra fredda”, di tipo diplomatico o economico, sarebbe comunque disdicevole, dato che Ankara ha la necessità di partecipare al tavolo delle trattative sul futuro della Siria, per una marea di motivi, in particolare: evitare che il nascente Kurdistan si trasformi in un nuovo Israele, permettere ai profughi di ritornare al loro Paese e garantire alle minoranze etniche legate al passato ottomano una qualche autonomia politica o regionale.