Ricorrono spesso sulla stampa notizie di criminali che percepiscono il cosiddetto “reddito di cittadinanza”: è inevitabile che in futuro queste storie continueranno a moltiplicarsi, non solo per l’annosa questione dei “furbetti del welfare”, ma soprattutto perché uno strumento come il RdC (d’ora in avanti lo indicheremo così) nel contesto attuale potrebbe effettivamente rivelarsi criminogeno.
Infatti, quale significato è stato dato a tale provvedimento dal governo che lo ha introdotto, peraltro utilizzando un’espressione inappropriata per quello che in fondo non è che una versione iper-assistenzialistica del reddito minimo garantito? È stato presentato nel contesto di un’armonizzazione del mercato del lavoro o di una ristrutturazione della previdenza italiana, oppure è stato pensato -nella migliore delle ipotesi- come scandaglio per eventuali bacini elettorali?
La seconda ipotesi pare sfortunatamente la più ficcante (absit iniura verbis). D’altro canto la maschera socialdemocratica che nel frangente attuale è stata posta al RdC non può nascondere il fatto che esso come strumento sia piuttosto “malleabile” a seconda delle tendenze politiche. Pensiamo alle simpatie nutrite nei suoi confronti da un Milton Friedman, che lo vedeva come grimaldello per smantellare ordinatamente il welfare e togliere sempre più potere alla “burocrazia” (= lo Stato). Oppure, per apprezzare le sfumature anche a destra, al tentativo di Nixon di introdurlo nel 1969, piano bocciato dal Senato americano in uno dei primi confronti tra il vecchio conservatorismo “statalista” e le nuove leve del liberismo. Sempre in ambito statunitense, è noto l’esistenza in Alaska di un “dividendo” dalle concessioni petrolifere: ogni cittadino dello Stato percepisce tra i 900 e i 2000 dollari annui. In tal caso il RdC favorisce l’idea di bene comune e, ancor più importante, non mina la dimensione sociale del lavoro (tutto sommato sono soldi “guadagnati”).
Il caso italiano, nonostante i paragoni evocati dai politici, sembra piuttosto diverso, anche se non sui generis: il sospetto è che, in primis per sudditanza culturale, l’unico modello di riferimento preso in considerazione sia quello “europeo”, cioè tedesco. Il problema è che la via teutonica al RdC, oltre a essere profondamente legata alla mentalità nazionale, garantisce la convivenza tra le istanze ordoliberiste e una concezione del welfare ancora “forte” grazie alla posizione economica e politica detenuta da Berlino nel nuovo assetto continentale. Inoltre, per dirla terra terra, il sistema dei sussidi in Germania non parte dalla premessa dello “Stato ladro” e dunque non genera eccessivi sensi di colpa in chi percepisce una qualche indennità. Pensiamo invece solo a come il RdC sia stato introdotto nel Bel Paese: politici ladri e fannulloni che danno soldi a cittadini ladri e fannulloni per farli diventare ancora più ladri e fannulloni. Tale è la mentalità con cui i padrini politici dell’iniziativa hanno raggiunto il potere, inutile nasconderlo.
Ecco perché si dovrebbe essere profondamente angosciati per il destino di questo Paese, al di là della retorica: perché anche in misure all’apparenza “sacrosante” si intravvede l’impreparazione, il lassismo, il masochismo, la miopia. Non c’è un piano per affrontare lo sconquasso prossimo venturo, e pure volendo auspicare che la crisi economica sia temporanea e reversibile, esiste sempre la necessità di governare il cambiamento senza lasciarlo in balia di forze falsamente tecniche, neutrali, “impersonali”. Come la forma più blanda e stracciona di assistenzialismo possa rispondere a certe sfide, è un mistero: per fare un solo esempio, il fatto che si paghino i cittadini per restare fuori da un mercato del lavoro nel quale ormai competenze consolidate diventano obsolete nel volgere di una stagione, è sconcertante. E non stiamo parlando di meccanica di precisione o microchirurgia, ma dei lavoretti da “terza media” come commesso o estetista: l’automatizzazione fa passi da gigante in campi insospettabili.
Ho pensato al destino dei giovani di questo Paese dopo essermi imbattuto in due mendicanti italiani. Il primo era un tizio dall’età indefinibile, poteva avere dai 20 ai 40 anni, obeso, pieno di piercing infilati a caso sul faccione, che scendeva dalla scalinata di una stazione con andatura incerta (non si capiva se per lo stordimento o per la scarsa prestanza). In generale sembrava uscito da un documentario sui rave party di metà anni ’90. Ho notato che sin dal principio della scalinata, quando ancora non aveva attorno nessuno, aveva iniziato a bofonchiare qualche parola strana, una richiesta che poi è finalmente venuta percepibile una volta avvicinatosi al primo gruppo di persone disponibile: “Qualcuno ha 40 centesimi?”. Proprio quaranta, non uno di meno. Nemmeno il tempo di rendermi conto di cosa stava chiedendo, che una signora di etnia incerta (tra l’Ecuador e le Filippine) gli ha dato al volo 50 cent ed è scappato via. Il tizio non ha nemmeno ringraziato, ha solo borbottato tra sé e sé: “Bene, molto bene”.
Il secondo era una delle facce da pirla più incredibili che abbia mai visto, accessoriata persino di baffetti. Mentre sto parlando al telefono mi si avvicina e mi fa con la mano aperta già piena di monete: “Hai un euro?” “No” “Hai 50 centesimi?” “No” “Hai 20 centesimi?” “No” “Hai 10 centesimi?” “No”. Il passeggero seduto accanto a me tira fuori il portafogli e gli da 10 centesimi, al che l’accattone parte con una filippica del tipo “Io la ringrazio di cuore signore, pensi che ci sono certe persone che non hanno nemmeno il coraggio di dirmi di no, si inventano le scuse più assurde, è una vergogna”. Devo ammettere che, per il suo bene, avrei tanto avuto voglia di schiaffeggiarlo, ma non l’ho fatto perché in fondo avrebbe dovuto pensarci suo padre.
In pratica abbiamo ora due tipi di italiani: quello che si fa fare la carità dalle filippine e quello che si sente in dovere di riceverla. Quest’ultimo figuro però mi ha colpito più dell’altro: nel suo atteggiamento c’era la tipica presunzione di chi crede di non aver ricevuto quanto gli spetta. Me lo immagino sin dalle elementari piagnucolare perché il maestro di musica gli ha imposto il flauto invece che la chitarra per la recita di fine anno. Forse la cosa che più mi ha irritato è aver rivisto in lui la mia generazione, una delle più inebetite e smidollate mai comparse in una nazione mediamente civilizzata. Ci è stato inculcato il cupio dissolvi sin dalla culla senza però darci un motivo per annullarci, fosse anche una religio civilis o un culto suicida di massa. E il risultato è che non siamo più nemmeno capaci di chiedere non dico l’elemosina di stato, ma proprio la carità dai passanti.