Il nomos della tecnica: Carl Schmitt e il centro di riferimento per il XXI secolo

Nelle scarne ma densissime pagine della sua conferenza del 1929, L’epoca delle neutralizzazioni e delle spoliticizzazioni (cfr. Le categorie del “politico”, Il Mulino, Bologna, 1972, pp. 167-183), Carl Schmitt affronta la questione della tecnica illustrando la successione dei “centri di riferimento” (Zentralgebiet) per ogni epoca: dal teologico (XVI sec.) al metafisico-scientifico (XVII sec.), dal morale-umanitario (XVIII sec.) all’economico (XIX sec.), fino appunto alla tecnica, “centro” del XX secolo e culmine del processo.

Secondo il politologo tedesco, il passaggio epocale da un centro all’altro si verifica quando gli uomini, al fine di risolvere le contese, abbandonano i vecchi principi per cercarne di nuovi: è per tale tendenza che all’umanità europea è apparso neutrale ora il sapere teologico, ora il morale-umanitario, ora quello economico. Si tratta di un’evoluzione incessante, poiché «il terreno neutrale appena conquistato si trasforma di nuovo, immediatamente, in un campo di battaglia e diventa necessario cercare nuove sfere neutrali» (ivi, p. 177).

La tecnica, tuttavia, appare come il punto d’approdo della storia umana: «Il processo di progressiva neutralizzazione dei diversi ambiti della vita culturale è giunto al suo termine poiché è arrivato alla tecnica» (ivi, p. 182). In verità le opinioni del filosofo su tale questione sono a dir poco opache: se da un lato egli afferma che la tecnica è neutrale perché «può essere rivoluzionaria e reazionaria, può servire alla libertà e all’oppressione», dall’altro invece le conferisce uno spirito, che consiste nella «fiducia in una metafisica attivista, la fede in una potenza e in un dominio sconfinato dell’uomo sulla natura, e quindi anche sulla physis umana» (ivi, p. 181). Per giunta Schmitt giunge a smentire -poche righe dopo averla enunciata- l’idea che la tecnica rappresenti il culmine della neutralizzazione: «Il significato finale si ricava soltanto quando appare chiaro quale tipo di politica è abbastanza forte da impadronirsi della nuova tecnica e quali sono i reali raggruppamenti amico-nemico che crescono su questo terreno» (ivi, p. 182).

Sembra che l’Autore si ostini a sostenere l’impossibilità di un ulteriore “centro di riferimento” oltre la tecnica semplicemente perché il pensiero non è ancora in grado di afferrarlo. Non è forse un caso che nella sua produzione successiva il tema della tecnica non si ripresenterà più, se non subordinato alla questione della guerra giusta in rapporto ai moderni mezzi di annientamento. Anche nei confronti di tale tematica, per altro, emergeranno continui paradossi, come si evince confrontando le considerazioni (peraltro esattissime) sulla guerra aerea con quanto enunciato nel testo del 1929: «Da nessuna importante scoperta tecnica è possibile prevedere quali saranno i suoi obiettivi influssi politici» (ivi, p. 179). Se tale sentenza fosse realmente valida, andrebbe stralciata tutta la parte finale de Il nomos della terra, perché è proprio riflettendo sui bombardamenti aerei che Schmitt non solo elabora uno dei più importanti pilastri teorici della sua dottrina, ma addirittura prevede esattamente gli “obiettivi influssi politici” della nuova tecnologia bellica (che poi tutto ciò suoni come un post hoc, è un altro discorso).

Persino Franco Volpi, seppur in tono apologetico, esprime qualche riserva sulle prospettive future di Schmitt riguardo il tema dell’“inimicizia assoluta”:

«Schmitt non poteva conoscere formazioni come quelle dei fedayin, dei pasdaran o dei mujahidin, né aveva allora motivo di soffermarsi sul concetto di “guerra santa”» (F. Volpi, “L’ultima sentinella della terra”, in Teoria del partigiano, Adelphi, Milano, 2005, p. 178).

Com’è possibile che una tale ampiezza di vedute, unita a una erudizione vastissima, non abbia portato Schmitt a elaborare una teoria definitiva su questo problema? È come se il trauma della sconfitta tedesca avesse costretto il pensatore nel vicolo cieco del Partigiano. Per fare un esempio particolarmente ficcante nei tempi attuali, il filosofo, dall’alto della sua longevità (96 anni), avrebbe potuto accorgersi dell’ascesa dell’islam politico, così come avrebbe potuto imbastire brillanti divagazioni sul tema della guerra santa (un argomento sul quale talvolta si è soffermato). Se ha deciso di non farlo, è semplicemente perché si è reso sua sponte incapace di pensare una ulteriore neutralizzazione oltre la tecnica, tanto è vero che l’unico tentativo di guardare “oltre” è circoscritto in una boutade della “Presentazione” a Il nomos della terra (tr. it. E. Castrucci, Adelphi, Milano, 1991, p. 15):

«L’ordinamento eurocentrico finora vigente del diritto internazionale sta oggi tramontando. Con esso affonda il vecchio nomos della terra. Questo era scaturito dalla favolosa e inattesa scoperta di un nuovo mondo, da un evento storico irripetibile. Una sua ripetizione moderna si potrebbe pensare solo in paralleli immaginari, come se ad esempio uomini in viaggio verso la luna scoprissero un nuovo corpo celeste finora del tutto sconosciuto, da poter sfruttare liberamente e da utilizzare al fine di alleggerire i conflitti sulla terra. La questione di un nuovo nomos della terra non può trovare una risposta in siffatte fantasie».

È deplorevole che un’intuizione così promettente venga liquidata come “fantasia”. Invece di lasciarla cadere, Schmitt avrebbe perlomeno dovuto collocare questo “nuovo corpo celeste” in un punto specifico della sua filosofia: si tratta di un pianeta disabitato, che replica la «comparsa di spazi liberi immensi» fornendo le basi a un rinnovato Jus Publicum Europaeum? Oppure è un satellite popolato da alieni, la cui comparsa, al pari di una hegeliana “astuzia della Ragione”, offre finalmente ai terrestri la possibilità di dare un senso alla parola “umanità” oltre la criminalizzazione del nemico? Non sono semplici divagazioni, poiché se in questo passaggio sembra che Schmitt avvalori l’ipotesi della res nullius intergalattica, in un altro luogo lo stesso corpo celeste ricompare, ma abitato: «L’umanità in quanto tale non può condurre nessuna guerra, perché essa non ha nemici, quanto meno non su questo pianeta» (Le categorie del “politico”, cit., p. 139).

È altrettanto incredibile che Schmitt concepisca tale possibilità solamente come “evento storico irripetibile”: forse la sua ripugnanza teorica per la tecnica lo porta a screditarla fino ai limiti dell’assurdo? È una eventualità per nulla improbabile, se torniamo al concetto di “inimicizia assoluta”. In fondo la tesi che “armi extraconvenzionali richiedono uomini extraconvenzionali” non è poi così originale; anche il fisico Max Born, per fare solo un esempio, giunse a una conclusione simile: «Se una nazione per la sua sicurezza fa assegnamento su un’arma assoluta, diviene psicologicamente necessario credere in un nemico assoluto» (M. Born, Il potere della fisica, Boringhieri, Torino, 1962, p. 109).

Quello che avrebbe dovuto fare Schmitt è spingersi oltre l’asimmetria degli armamenti, che invalida il concetto di guerra reciproca, e ripensare la questione in uno scenario dove la tecnologia avrebbe portato a una nuova parità delle armi (così come la “guerra aerea autonoma” era stata ridotta alla dimensione “orizzontale” del conflitto grazie allo sviluppo consequenziale dalla difesa contraerea).

Il paradosso della tecnica “neutrale” e “non-neutrale” sta tutto qui: è superfluo che il filosofo si dilunghi sulla “religione del miracolo tecnico” o sul “tecnicismo magico” se poi non accenna nemmeno a come il suo schema (conflitto > neutralizzazione > conflitto) dovrebbe riproporsi nel XX secolo. Affermare che il processo di progressiva neutralizzazione culmina nella tecnica non ha molto senso, se pensiamo che già durante l’immediato dopoguerra sorsero nuovi conflitti e inimicizie nel terreno neutrale designato dall’epoca precedente. È lo stesso Schmitt ad ammetterlo: «Proprio per il fatto che [la tecnica] serve a tutti non è neutrale» (Le categorie del “politico”, p. 178). Oltre questa soglia è il lettore che deve risolvere l’aporia da sé: la tecnica ha uno “spirito” oppure no? Schmitt, come abbiamo detto, risponde affermativamente e negativamente: lo spirito della tecnica esiste (è una metafisica attivista con cui l’uomo impone il suo dominio della natura) e non esiste (perché essa è “culturalmente cieca” dunque i suoi influssi politici non sono prevedibili).

Non credo sia necessario proseguire oltre, soprattutto perché non vorrei dare l’impressione di equivocare volutamente le tesi di Schmitt per potermene sbarazzare. In verità sarebbe agevole concordare con lo studioso da diverse prospettive: quella cattolica, per esempio. Tanto per citare, Cornelio Fabro, in una sua recensione del 1963 a La bomba atomica e il destino dell’uomo di Karl Jaspers per “L’Osservatore Romano” (Filosofia o teologia della bomba atomica?, ora ne Il mondo cancellato, Medusa, 2002, pp. 15-36) qualifica come «luogo comune balordo e insulso» l’idea che «neppure per le recenti bombe all’idrogeno si [possa] parlare di “arma assoluta”, in quanto sono già allo studio o magari in fase di esperimento le rispettive contro-armi», e questo perché

«l’impiego dell’arma, di qualsiasi arma, può avere la frazione di vantaggio per eludere l’azione neutralizzante della contro-arma: dato che l’avversario […] farà tutto il possibile per coglierlo [scil. il nemico] di sorpresa, per neutralizzare la contro-arma, e così all’infinito… E questo è l’infinito dell’ira, della disperazione, dell’angoscia, della paura cosmica».

Fabro, al pari di Schmitt, interpreta la tecnica come prospettiva ultima: è interessante notare come anche nelle considerazioni del teologo si annidi una contraddizione di fondo, poiché egli lascia altresì intendere che la prima “atomica” della storia è il bastone di Caino, e che dunque le super-bombe offrono un apporto quantitativo e non qualitativo al concetto di “arma”, confermando indirettamente l’opinione –precedentemente liquidata come “luogo comune balordo e insulso”– che nessuna arma potrebbe dirsi assoluta.

Lasciamo dunque i due autori alle loro contraddizioni e accantoniamo l’idea che lo “spirito” della tecnica possa influenzare il politico, accettando che essa «può essere rivoluzionaria e reazionaria, può servire alla libertà e all’oppressione, alla centralizzazione e alla decentralizzazione» (Le categorie del “politico”, p. 179). È proprio a partire da questa petizione di principio che elaboreremo qualche breve riflessione sul rapporto tra gli usi e costumi dell’uomo occidentale e lo sviluppo tecnologico.

Nelle nostre democrazie l’approccio alla tecnica (e alle sue ricadute benefiche per la collettività) è infinitamente più complicato di quello intrattenuto da altri sistemi politici, che invece la dominano (in pratica dominano il dominio) senza troppi complessi. Questo è dimostrato dal modo in cui i media occidentali interpretano alcune prese di posizione contro la tecnica a seconda delle latitudini in cui vengono espresse: esse possono di volta in volta apparire come dimostrazioni di riflessività, coscienza sociale e umanitarismo, oppure come sintomi di anacronismo, reazione, oscurantismo – del resto è noto che in Europa come negli Stati Uniti le argomentazioni misoneistiche abbondano sia a sinistra (ecologismo, luddismo) che a destra (bioetica, arcaismo).

Le responsabilità maggiori di certe “fissazioni” andrebbero attribuite a una corrente di pensiero che potremmo definire positivismo, nel senso allargato di ogni movimento intellettuale che investe di aspettative messianiche lo sviluppo tecnologico (ovvero tutto ciò che va dal Satana carducciano in forma di locomotiva all’entusiasmo mistico dei sindaci parigini per l’elettricità come trionfo della luce del progresso sulle tenebre del passato). Tali suggestioni hanno conferito alla tecnica un ruolo che nella realtà non gli compete (o potrebbe spettargli solo a causa del cosiddetto “Effetto Pigmalione”) e che sedimentandosi hanno creato come un senso di colpa o una impossibilità al pieno godimento dei suoi benefici.

L’esempio italiano è forse quello più pregnante: qualsiasi discussione sulla tecnica finisce sempre per sfociare nella metafisica. Pensiamo alle varie forme di ambientalismo, l’Italia di una volta idealizzata come immenso bosco incantato, oppure alla laudatio temporis acti che contagia grandi e piccini, dalla tipica espressione del vegliardo nazionale («Una volta qui era tutta campagna») a quella del giovanotto che si strugge nell’impossibilità di non poter vivere come un contadino di cinquant’anni fa (sentimenti rigorosamente espressi per mezzo di un computer).

Il caso italiano è davvero sui generis, poiché una congiunzione storica particolare ha fatto sì che al cosiddetto “progresso” siano state attribuite responsabilità eccessive. Nella coscienza nazionale si è sedimentata l’idea che, ad esempio, la possibilità di avere i servizi igienici nel proprio appartamento, lo sviluppo della odontoiatria o la disponibilità di merci nei supermercati intrattengano un certo rapporto misterioso con il sesso prematrimoniale, le rivendicazioni femministe o la secolarizzazione. Tutti noi, consapevolmente o meno, siamo infatti convinti che lo sviluppo scientifico sia collegato in modo indissolubile a un generico allentamento dei costumi, se non alla distruzione di qualsiasi tipo di morale. Questa mentalità genera anche fenomeni inversi: c’è chi rifiuta i sedativi, dorme in un sacco a pelo o non usa la lavastoviglie per –a seconda dei casi– rispettare la tradizione, tutelare l’ambiente o prevenire l’adulterio.

Quanto detto sul caso italiano potrebbe valere ovviamente per altri Paesi occidentali (se ne abbiamo discusso in questi termini è stato solo per dare una connotazione folkloristica a certe idées reçues transnazionali). Lo stesso Schmitt afferma che «molti uomini collegano in maniera del tutto magica tecnica e morale». L’esaltazione della tecnica si accompagna tuttavia a un sentimento di rifiuto che ha trovato una delle sue più alte espressioni in certa letteratura fantascientifica: in molte distopie ricorre l’immagine di una società di schiavi controllata da una élite che detiene il monopolio del potere tecnologico.

Sia essa espressione di una sublime maestria letteraria, sia invece lo sfogo di una mente paranoica, tale visione riesce in un certo qual modo a “far presa” anche tra le masse. L’inquietudine nasce principalmente dal modo imprevedibile in cui un futuro del genere potrebbe realizzarsi. Molti aspetti della post-modernità hanno un che di enigmatico che accresce l’angoscia: per esempio, non è ancora comprensibile in che modo si potranno conciliare due visioni opposte quali la “fine del lavoro” e la “iper-competività”. Eppure noi (soprav)viviamo nello scontro tra le due tendenze: da un lato l’automatizzazione completa e la deindustrializzazione vengono proposte come soluzioni definitive alla maledizione che affligge l’uomo dalla notte dei tempi (il lavoro, appunto); dall’altro, invece, si suggerisce la drastica riduzione dei diritti della plebe come unico strumento per competere nella conquista di nuovi mercati globali. Il rischio è che questo squilibrio un bel giorno partorisca la società da incubo di cui s’è appena detto,.

Una qualche forma di umanesimo, capace di “fare la differenza”, potrebbe rappresentare la via di uscita dall’impasse. Tuttavia gli intellettuali contemporanei, turbati anch’essi dalla tecnica (in alcuni casi vista come una minaccia diretta al fantomatico “lavoro della conoscenza”) non potendo più esaltarla, hanno preferito ridurre l’umanesimo a chiacchiera: e così pure loro si sono lasciati andare a tartufeschi peana verso le “buone cose di pessimo gusto” di gozzaniana memoria. Ma il pensiero “regressista” è viziato da troppi paradossi per porsi come alternativa credibile: questa confusione sembra in parte generata (ma è solo una ipotesi), dalla gemmazione dell’ideologia della cosiddetta “decrescita” da una sinistra tradita dal mito del progresso che per anni ha contributo ad alimentare. Forse è anche per i residui di una concezione “mitica” che questi intellettuali non riescono a liberarsi dal pregiudizio di una tecnica onnipotente, omnipervasiva, inarrestabile, legibus soluta (che, ironia della sorte, è la stessa idea condivisa dai loro oppositori).

In Italia per giunta un confronto serio sul tema non è mai realmente avvenuto: gli echi del dibattito americano sulle “due culture” (umanistica e scientifica) suscitato dal saggio di Charles P. Snow ci giunsero nella forma di un articolo di Elio Vittorini per una rivista Einaudi (La ragione conoscitiva, “Menabò di letteratura”, n. 10, 1965):

«Che cosa significa, in effetti, conoscere Shakespeare? Significa acquisire una ricchezza, […]. E se non ce ne arricchiamo, se vi passiamo accanto senza fruirne, senza appropriarcene, beh, quello che succede è semplicemente che restiamo poveri. Ma se ignoriamo il secondo principio della termodinamica, se ignoriamo i processi della evoluzione stellare oppure animale, noi ci troviamo a mancare di qualcosa da cui dipende la pertinenza storica del nostro operare, anche in senso letterario. Noi ci troviamo a mancare di uno sviluppo nella nostra struttura mentale».

Per certi versi è meglio sia andata così, poiché sarebbe stato uno spettacolo altrettanto miserevole assistere al vilipendio postumo del povero C.P. Snow per alcune sue posizioni oggi considerate “estremiste”, come l’idea che la scienza sia «l’unica speranza per i poveri» o l’auspicio di «uno sviluppo industriale per le aree povere del pianeta» (anathema sit: il Terzo Mondo attualmente ha bisogno solo di agricoltura e animismo).

Possiamo dunque risparmiarci la carrellata di “soliti noti” passati dal socialismo all’ecologismo reale e concentrarci su quanto si trova a destra. Due posizioni originali e contrapposte sono quelle di Guillaume Faye e Augusto Del Noce.

Faye, patrono dell’archeofuturismo, nel suo manifesto sostiene la «compatibilità fra i valori arcaici e le rivoluzioni consentite dalla tecno-scienza» e propugna uno scenario in cui un “Mondo del Nord” (Nordland) composto da Europa, Stati Uniti e Russia «conserva il modello tecno-scientifico» utilizzando in modo “controrivoluzionario” l’energia nucleare e l’eugenetica “positiva”, mentre il resto del mondo «ritorna a una economia rurale e artigianale pre-tecnica di pura sussistenza» (G. Faye, Archeofuturismo, Società Editrice Barbarossa, Cusano Milanino, 1999). Come Schmitt, anche Faye è convinto della “cecità” della tecnica e perciò auspica un suo utilizzo esclusivo da parte di una élite (strano a dirsi, ma tale visione, che ha l’unico pregio di essere chiara, sembra essere condivisa da quegli ambientalisti preoccupati che l’Africa si “corrompa” a contatto col progresso).

Passando a Del Noce, la sua critica alla “società opulenta” sembra confermare anche in questo caso una concezione neutrale della tecnica, poiché il giudizio su di essa concerne i «fini e valori» e non la tecnica in sé. Possiamo quindi affermare che pure il pensatore italiano condivide l’idea schmittiana che la tecnica non è produttrice di morale, idea peraltro chiaramente espressa nella polemica contro i suoi contemporanei, gli “uomini vuoti” della “società del benessere” che adottano come unico criterio il «massimo soddisfacimento possibile dei gusti e appetiti» e non sono spinti da nessuna consapevolezza morale o religiosa a desiderare la diffusione del benessere tra i meno abbienti, neppure allo scopo di sopprimere le tensioni rivoluzionarie (cfr. A. Del Noce, L’epoca della secolarizzazione, Giuffrè, Milano, 1970).

Volendo speculare sull’impostazione delnociana, potremmo aggiungere che l’esclusione di qualsiasi fondazione metafisica del pensiero e il rifiuto di esercitare un minimo di controllo (se non morale, almeno razionale) sulla tecnica, condurrà, per eterogenesi dei fini, a una nuova forma di totalitarismo. Se tra il 1917 e il 1933 l’umanità non disponeva ancora dei mezzi per dare contenuto empirico a ideologie e utopie, in un futuro non molto lontano la tecnica concepirà il “Dio necessario” (questa volta immortale) per mantenere l’ordine minacciato da essa stessa, e finalmente cadranno le divisioni artefatte tra utopie progressiste e mitologie regressive. Questo tipo di dialettica è già in atto ma si finge di non vederla, interpretando le potenzialità totalitarie della tecnologia come “tendenze accidentali”: si vedano le polemiche sulla sorveglianza sempre più oppressiva o sulle possibilità offerte dalla manipolazione genetica. In che modo si tenta di porre un limite? O col sentimentalismo camuffato da bioetica, oppure con una “antropologia positiva” senza basi che esiste solo nella testa di chi vuol crederci. Quando ogni possibilità estrema si sarà consolidata, sarà troppo tardi per formulare un pensiero che vada oltre Machiavelli e Hobbes: sarà l’umanità stessa a invocare, come argine alla volontà di potenza, una tecnologia che decida cosa è bene e cosa è male.

Dalla riflessione di Del Noce potrebbe svilupparsi il progetto di una configurazione dell’umanesimo residuo che, in quest’ottica, assumerebbe il compito storico di arrestare la deriva totalitaria della tecnica attraverso una rifondazione metafisica, o almeno una “antropologia cristiana” su modello vichiano. Tuttavia affrontare ora tale questione non solo allontanerebbe dal tema principale, ma potrebbe condurci a una lettura ingenua e riduzionistica del problema. Se ci siamo soffermati soltanto su alcuni approcci critici di “sinistra” e di “destra”, è stato per dimostrare come il “centro di riferimento” del secolo scorso ha perso la sua neutralità. Per la loro trasversalità, tali opinioni potrebbero addirittura rappresentare una sorta di “pseudospeciazione culturale”, prodotte dalla necessità di ricercare un nuovo campo neutrale.

Ora possiamo finalmente guardare oltre Carl Schmitt e affermare che il processo di progressiva neutralizzazione non si può arrestare, perché anche la tecnica è diventata terreno di conflitto. Una parte della intellighenzia occidentale ha infatti deciso di pensare la tecnica esclusivamente nei termini di conflittualità, ovvero di dividere i popoli tra quelli “arretrati”, che non sono in grado di utilizzarla in modo riflessivo, contribuendo a una scellerata devastazione dell’ambiente, e quelli “evoluti”, che invece sono in grado di dominarla perché l’hanno sottoposta a un severo processo critico e sono giunti a elaborare sia una ideologia che, grazie a un profluvio di parole, è in grado di imbrigliare la crescita attraverso il senso di colpa, sia una “controtecnica” capace di correggere gli errori e le sbavature del Progresso.

Di conseguenza i raggruppamenti amico-nemico che si configureranno sul terreno della tecnica non saranno quelli ingenuamente concepiti da chi crede che la lotta sarà decisa in base alla potenza o alla raffinatezza delle armi, come i due colonnelli cinesi Qiao Liang e Wang Xiangsui, che in Guerra senza limiti, brogliaccio trafugato dalla CIA (classico topos letterario, quello del manoscritto ritrovato) immaginano, tra le altre cose, un raggio laser che proietta in cielo immagini religiose per spaventare i soldati devoti…

No, amici e hostes si definiranno in base ai diversi significati che ognuno dei contendenti darà alla tecnica. La guerra tecnica sarà quindi una ripetizione di quelle religiose, nazionali ed economiche: cuius regio eius technica.

D’altro canto, anche la guerra “umanitaria”, una volta raggiunta la reciprocità negli armamenti, ritornerà nel politico e gli uomini dovranno impegnarsi nella ricerca di un nuovo centro neutrale. Al momento, per ovvi motivi, è quasi impossibile individuarlo, ma se fossimo costretti a farlo non potremmo che rivolgerci a un’idea che conserva tuttora un certo spessore teoretico, nonostante l’abuso fattone da Francis Fukuyama (e dai suoi cattivi interpreti): stiamo parlando della famigerata “lotta per il riconoscimento”. Che il thymòs possa diventare il centro di riferimento per il XXI secolo? La “competizione” sembra un buon candidato a rappresentare il nuovo terreno neutrale dove sia possibile «intendersi, unirsi e convincersi a vicenda» (C. Schmitt), visto che già da ora essa è il leitmotiv del secolo appena iniziato. Dopo le guerre tecniche, quelle timotiche?

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