Lars e una ragazza tutta sua: Ryan Gosling ha iniziato a giocare con le bambole molto prima di Barbie

Premetto che non sono un esperto in Ryangoslingologia (scusate se sono etero), ma sono lieto che in questi anni di memetic warfare si sia riuscito a strappare questo grande attore all’angusta e squallida riduzione a “nuova icona del femminismo americano” a cui lo aveva sottoposto negli ultimi vent’anni il mainstream, pompando a mille gli improponibili tazebao (non riesco proprio a definirli “meme”) realizzati da una “dottoranda in studi di genere” all’Università del Wisconsin su feministryangosling.tumblr.com (l’ultimo aggiornamento risale, tipo, a 10 anni fa, ma le redazioni continuano ad applaudire).

Bisogna dare atto a Ryan Gosling di non aver fatto nulla per ricevere tale tipo di attenzione dall’Internazionale delle Gattare, a parte essere B E L L I S S I M O e aver intrapreso la carriera d’attore. D’altro canto, già all’epoca il suo curriculum cinematografico comprendeva due opere tutt’altro che politicamente corrette: una è ovviamente The Believer del 2001, nella quale interpreta un naziskin ebreo (spero non suoni ghei definirlo un cult), e l’altro è il meno conosciuto Lars and the Real Girl del 2007, il cui titolo per una volta (miracolo) è stato persino tradotto in italiano con Lars e una ragazza tutta sua.


In questa pellicola Gosling fa la parte di un trentenne solitario alloggiato in un garage accanto alla casa del fratello (sposato e in attesa di un figlio), che un giorno decide di acquistare su internet una bambola che riproduce perfettamente l’anatomia femminile, obbligando i suoi conoscenti a trattarla come se fosse una donna in carne e ossa.

Lars infatti dà un nome (Bianca) e crea persino una biografia per la sua sex doll (è una missionaria cristiana di origine danese-brasiliana…), e per portarsela in giro come una fidanzata reale usa l’espediente di piazzarla su una sedia a rotelle: invece di farne un uso masturbatorio (sembra quasi non indulga mai in alcun atto “carnale” -per così dire- con l’oggetto), la conduce in chiesa di domenica, la presenta ad amici e colleghi nelle feste cittadine e la porta in visita nei luoghi a lui più cari (emblematica è la scena in cui le racconta alcuni episodi della sua infanzia durante una “passeggiata” in un bosco).

Non so quale fosse l’intento del regista e degli sceneggiatori, ma alla pari di Barbie anche la morale di questo film è a tratti enigmatica: tutto quello che Lars, un giovane che non si vergogna di “avere il coraggio delle proprie emozioni”, chiede alla vita è di trovare una donna che lo ascolti e lo ami. Singolare che una volta agghindata la sua bambola, egli cominci davvero a capire cosa sia la felicità, persino quando le rivela i propri sentimenti più profondi e riceve forse una reazione più umana e comprensiva (occhi sbarrati, labbra serrate, funzioni vitali ridotte al minimo) di quella della cumciettina media. E nonostante le persone che lo circondano ipotizzino semplicemente una nevrosi, Lars sembra consapevole di impiegare il proprio tempo (e la propria anima) in un nulla: come se alla presa d’atto che il giuoco sia truccato egli avesse deciso di rispondere con un giuoco ancor più complesso e devastante, il quale tuttavia esclude ogni possibilità di illusione nella misura in cui è l’illusione a diventare l’unica cosa reale.

Alla fine saranno proprio le donne reali a “salvare” Lars: sia, in parte, la moglie del fratello, che assume in pieno il proprio ruolo simbolico di madre e cerca amorevolmente di farlo uscire dal suo delirio; sia soprattutto l’altra donna protagonista, la sua collega Margo, che seppur sconvolta dalla nuova “fidanzata” si sforza di comprenderlo e aiutarlo.

Questo carattere femminile sembra un alter ego della “bambola”: Margo è sincera, gentile, sorridente, comprensiva, arriva addirittura ad ammettere di “sentirsi così sola”. Tuttavia alla fine si dimostra anche capace di far ingelosire Lars e strapparlo alla sua “donna di plastica”. Un lieto fine decisamente scontato, che però non guasta l’atmosfera dolceamara che caratterizza l’opera per tutta la sua durata.

Per concludere, è singolare che questo Gosling non sia mai divenuto oggetto di memizzazione: posso ipotizzare che in tale veste rappresenti problemi e questioni troppo dolorose e pungenti per esser ridotte a un contesto, seppur post-ironico, affamato di araldi ed icone.


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