“Rapito” di Marco Bellocchio è la sintesi perfetta del decadimento della cultura italiana

L’ultimo manufatto della sempre più fallimentare “industria” (si fa per dire) del cosiddetto “cinema autoriale” italiano è Rapito di Marco Bellocchio, dramma storico incentrato sulla figura di Edgardo Mortara, bambino ebreo sottratto alla sua famiglia dalle autorità vaticane in quanto battezzato di nascosto. Già di per sé un argomento scottante, specialmente alla luce delle tendenze ideologiche del regista, incapace di nascondere anche solo per cinque minuti il tristissimo milieu di provenienza, a metà strada tra maoismo d’antan e pannellismo post-tutto. Tuttavia uno ci prova, si mette d’impegno a cogliere qualche brandello di “vita culturale” della propria nazione, la quale, puttana e vigliacca, non è in grado di offrire altro che la solita baracconata ad uso e consumo di piddini, parapiddini e “radicali di massa”.

Le buone intenzioni però c’erano, credetemi: l’auspicio era almeno quello che in un asfissiante clima di neutralismo bergogliofilo serpeggiante tra le congreghe sinistroidi si fosse giunti a produrre nuovamente qualcosa di “anticattolico”, anche nel senso più becero del termine. Invece Rapito è il solito sterco aromatizzato al cioccolato (immagine ricorrente quando si parla di “autorialità” all’italiana), su cui il nostro cinema prospera purtroppo ormai da decenni, se non da sempre: nel caso particolare, un’operetta nemmeno poi tanto “morale” in cui il Vaticano appare come una Morte Nera ottocentesca intenzionato a fare di un povero bambino ebreo il casus belli contro la modernità.

Cerchiamo subito di fare chiarezza: la vicenda di Edgardo Mortara, figlio di una famiglia ebraica battezzato in extremis da una balia cristiana e accolto dalla Chiesa cattolica in un’estenuante battaglia con i suoi nemici a livello nazionale e internazionale, non ha praticamente nulla a che fare con il film in questione. Non esiste infatti un solo episodio di Rapito che possa essere giustificato da una “fonte” qualsiasi: è un’incessante “libera interpretazione” che vuole ridurre un momento tragico della nostra storia in una favola pseudomassonica capace di entusiasmare appunto qualche fanatico bergoglista “post-cattolico” (una delle poche fazioni ancora vogliose di prendersi ideologicamente sul serio).

Solo in ossequio a come realmente si svolse la vicenda di Don Pio Maria Mortara (così infatti scelse Edgardo di nominarsi da cristiano), mi permetto di fare un elenco -minimo- delle inesattezze.

NON È VERO che il piccolo Mortara sia stato “rapito” con tanto di blitz dei gendarmi pontifici, semmai il Vaticano intraprese una serie di complicate trattative per convincere i genitori a non spingere la Chiesa fino al punto di dover “togliere a Cristo un’anima che Egli ha comprato col Suo sangue”, posto che gli stessi coniugi Mortara avevano violato le leggi dello Stato Pontificio scegliendo per domestica una cristiana (nei territori vaticani era fatto divieto alle famiglie ebraiche di assumere cristiani come servitori, anche per evitare episodi come questo, in cui un fedele si sarebbe sentito in dovere, pena l’inferno, di battezzare un infante persino contro la volontà dei genitori, pratica vietata dal Codice di Diritto Canonico).

NON È VERO che Anna Morisi, la domestica che ha battezzato Edgardo Mortara, fosse una puttanella e una ladra, nonché una delatrice prezzolata dall’Inquisitore di Bologna. I fatti andarono molto diversamente: la Morisi, nella sua ingenuità di brava cristiana, battezzò Edgardo all’età di 17 mesi perché affetto da “una grave malattia” che lo “ridusse all’estremo” (sono testimonianze del Mortara stesso). La giovane Anna tenne per sé l’accaduto fino a quando sei anni dopo in casa Mortara non morì un bambino, e di fronte ai rimbrotti delle sue amiche che la accusavano di non averlo battezzato, lei dovette rivelare di aver rischiato troppo benedicendo già uno dei figli. Chiaramente la notizia giunse in un batter d’occhio ai “piani alti”, senza che ci fosse bisogno di mettere in mezzo chissà quali “mazzette” per far confessare la fantesca.

NON È VERO che i Mortara non poterono vedere il figlioletto che sparute volte: come racconta Edgoardo stesso, suo padre e sua madre andarono a trovarlo per mesi interi senza riuscire a convincerlo (all’età di sette anni!) di tornare con loro. Semmai fu lui a insistere continuamente affinché la sua famiglia si convertisse: un atteggiamento che convinse i religiosi che si occupavano del piccolo di trovarsi al cospetto di un “miracolo”.

Bisogna poi ricordare che Pio IX si ritrovò attaccato letteralmente da mondo intero quando decise di combattere fino alla fine la battaglia per l’anima di Edgardo: come annotò ancora quest’ultimo, “Sua Santità si dichiarò mio padre adottivo, come di fatto lo fu [… e] ripeteva spesso che gli ero costato molte pene e lacrime“. Ecco perché NON È VERO che Don Pio Maria Mortara durante la traslazione a San Lorenzo della salma del Papa-Re si sia unito alla folla di facinorosi (aizzati dalle camarille massoniche della Capitale) per buttare il cadavere dell’amato Pontefice nel Tevere.

Sempre a proposito di Pio IX, NON È VERO che fosse tormentato dagli incubi: semmai, nonostante venisse quotidianamente attaccato per il “caso Mortara” da New York a Roma e da Torino a Londra, egli, su modello del Divin Redentore, fece suo il motto ipse vero dormiebat.

NON È VERO infine che Don Mortara abbia tentato di battezzare la madre in fin di vita: il rapporto con la sua famiglia fu sempre problematico, specialmente nel momento in cui il padre Momolo, trasferitosi a Firenze, fu implicato nel caso della morte di un’altra domestica cristiana, Rosa Tognazzi, che a quanto pare fu malmenata dal Mortara padre “per moto improvviso d’animo” (egli era infatti un “uomo furioso”, che “maltrattava continuamente” le sottoposte) e poi gettata dalla finestra “per simulare un suicidio”.

Naturalmente tutto ciò, come affermato sopra, è detto solo in onore della verità e non per impedire a chicchessia di considerare l’intera faccenda inaccettabile e vergognosa: tuttavia, che almeno se ne parli in modo onesto, senza imbastire una narrazione fatta di cappuccetti ebrei e lupi vaticani. Per esempio, in alcune sequenze del film sembra quasi che Bellocchio voglia istituire dei paralleli tra ritualismo ebraico e cattolico: quale occasione migliore, per un regista che si fregia del proprio ateismo, di ridurre ogni religione a puro formalismo e superstizione? Invece no, bisogna raccontare per forza la storiella degli ebrei vittime e dei cristiani carnefici, inventando di sana pianta decine di episodi perché evidentemente la verosimiglianza è uno spazio troppo angusto per le evoluzioni di un Pindaro canuto.

Anche alcune interpretazioni originali che la lettura di Bellocchio potrebbe offrire, come ad esempio il collegamento tra il collasso del potere temporale pontificio e l’interpretazione del “Caso Mortara” come punta di diamante di una presunta “guerra alla modernità” di Pio IX (posto che la prospettiva dei suoi avversari fosse specularmente la stessa), vengono purtroppo inficiate dalla insistita riduzione del drammatico al fiabesco, un meccanismo che alla lunga diventa estenuante, anche per chi ha solo dato un’occhiata alla pagina Wikipedia dedicata al caso.

Non che fosse possibile da aspettarsi altro in un’opera di Bellocchio, nonostante gli enormi talenti a sua disposizione (in primis il cast di interpreti, il meglio che l’Italia nel bene e nel male possa attualmente offrire) e la sua padronanza del mezzo, dovuta probabilmente più all’esperienza che al genio (non è una cattiveria). Diventa arduo perciò rivalutare Rapito sotto alcuna prospettiva, nemmeno da una sociale o meramente psicologica (come l’incredibile influenza che forze esteriori alla famiglia possono avere nel condizionamento di una persona): si può solo metterlo da parte come testimonianza di un’epoca in cui la “cultura alta” non riusciva che a mettere in scena quanto c’è di più “basso”.

6 thoughts on ““Rapito” di Marco Bellocchio è la sintesi perfetta del decadimento della cultura italiana

    1. Chi tace acconsente…
      D’altronde vorrei ricordare che l’abusivo vestito di bianco si vanta di non aver mai neppure pensato di convertire la sua psicologa ebrea, per esempio.

  1. Il momento piu alto della carriera di Bellocchio rimane la scena della bestemmia nel film “L’Ora di Religione”. Protetto anche dalla sua ombra, ma l’ha fatto.

    1. A parte che molte strutture (o storture) dell’Inquisizione non sono state corrette dalla giustizia “secolare”, o come vuoi chiamarla, anzi semmai sono state ripetute e amplificate, ad ogni modo queste battute lasciano il tempo che trovano, considerando la condizione della tanto decantata “libertà di parola” nei confronti di chi affronta in modo critico altre religioni quali l’ebraismo o l’islam (per non dire di un regista che volesse girare un film controcorrente sull’omosessualità, il femminismo o il transessualismo).

      1. Ma dai, lo sai bene anche tu che il punto non è questo. Alcune critiche al film di Bellocchio possono anche essere fondate, ma è un po’ difficile non essere condizionati dalla certezza che l’avversione al film sia dettata dall’antipatia per gli ebrei. E’ questo mio un argomento ad hominem? Probabilmente sì: forse è vero che la caratterizzazione di Pio IX è eccessivamente caricaturale e se questo è vero lo è a prescindere dal fatto che chi esprime la critica sia un antisemita che flirta con tutte le cazzate che produce la galassia antisemita, ma tant’è: è impossibile tenere separate le due cose. Certo, si poteva rendere in modo meno didascalico il lavaggio del cervello inflitto a un bambino strappato alla sua famiglia (in effetti sarebbe affascinante capire meglio come, in età adulta, Mortara abbia potuto elaborare razionalmente e giustificare un’aberrazione come quella perpetrata dal Vaticano). Resta tutto sommato, nonostante il discutibile valore artistico, il valore di un’opera che ripesca una vicenda della quale praticamente nessuno, nella cattolicissima Italia, aveva mai sentito parlare.

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