Per convincervi della necessità di ripristinare l’istituto della pena di morte nella nostra nazione (del resto rimasto in vigore fino al 1947, e formalmente nel diritto militare fino al 2007), inizierò a citare i casi americani più osceni e rivoltanti in cui è stata applicata fino a portarvi a schiumare di rabbia e darmi ragione.
Iniziamo con quello di un pedofilo che ha rapito un bambino, lo ha torturato e violentato al grido di “Hai mai conosciuto Satana, figliolo? Adesso lo vedrai” e poi lo ha ucciso mentre si riprendeva con una videocamera, e i cui filmati trasmessi in aula hanno costretto alcuni membri della giuria popolare a rivolgersi a uno psicologo per il trauma di aver dovuto assistere a scene che farebbero venir voglia di spazzare via l’umanità intera con una atomica.
E invece no, non farò nulla di questo. Porterò solo argomentazioni razionali e mi aspetto che chi vorrà controbattere non si azzardi a tirar fuori motivazioni sentimentali (“Ho visto il video di un condannato agonizzante, non so quale fosse il contesto né di quale crimine fosse accusato, ma ho pianto molto e dunque la pena di morte è brutta brutta”) o ragionamenti pseudo-razionali del tipo “Uccidere un assassino non riporterà in vita la persona che ha ammazzato”. Sì, è ovvio che sia così, lo capirebbe pure un bambino. Con la stessa logica potrei però rispondere che nemmeno risparmiare un infanticida riporterà in vita la sua piccola vittima: questo è lo stesso pensiero “magico” presupposto dal ragionamento, ma ribaltato. Chi pensa che sia un bene tenere in vita un assassino non per questo crede che tale bene abbia la forza di riportare in vita la persona che ha ucciso. Argomento non valido, quindi.
Non che da tali banalità siano esenti gli intellettuali: nella sua famosa intervista a Michel Houellebecq, il filosofo Michel Onfray (non uno stupido) ha appunto ribattuto allo scrittore (ovviamente favorevole alla pena capitale) che ciò non riporterà in vita nessuno, sentendosi liquidare con un “però so che il colpevole è morto, e questo ristabilisce un equilibrio”.
Già, rétablir un équilibre: tale sarebbe lo scopo principale dell’istituto sin dai primordi, la cui nascita si può attribuire certamente a un proposito “materiale” (sbarazzarsi di un reo “incontenibile”) che però non ne esclude uno “culturale” (dare a una collettività, perlopiù tenuta assieme da simboli, l’idea di essersi “purificata dal male”). Purtroppo è difficile stabilire con criteri scientifici l’importanza culturale della pena capitale, anche perché gli “abolizionisti” non si accontenterebbero di un sondaggio favorevole (persino con percentuali “bulgare”) condotto tra i cittadini in quelle nazioni che la applicano.
Allora partiamo dall’importanza “materiale”: era lo stesso Cesare Beccaria, citato sempre a sproposito, che oltre ad approvare la tortura nei confronti dei testimoni reticenti (prendetevi del tempo per rileggervi Dei delitti e delle pene), ammetteva comunque la possibilità di giustiziare il reo in base alla sua influenza a livello collettivo, adducendo “due motivi” riconducibili sempre alla dimensione sociale:
«La morte di un cittadino non può credersi necessaria che per due motivi. Il primo, quando anche privo di libertà egli abbia ancora tali relazioni e tal potenza che interessi la sicurezza della nazione; quando la sua esistenza possa produrre una rivoluzione pericolosa nella forma di governo stabilita. La morte di qualche cittadino divien dunque necessaria quando la nazione ricupera o perde la sua libertà, o nel tempo dell’anarchia, quando i disordini stessi tengon luogo di leggi; ma durante il tranquillo regno delle leggi, in una forma di governo per la quale i voti della nazione siano riuniti, ben munita al di fuori e al di dentro dalla forza e dalla opinione, forse piú efficace della forza medesima, dove il comando non è che presso il vero sovrano, dove le ricchezze comprano piaceri e non autorità, io non veggo necessità alcuna di distruggere un cittadino, se non quando la di lui morte fosse il vero ed unico freno per distogliere gli altri dal commettere delitti, secondo motivo per cui può credersi giusta e necessaria la pena di morte».
E con questo direi che, almeno per una volta, si potrebbero mettere da parte certe fanfaluche ottocentesche. Passando invece ai cattolici, sono imbarazzato nel confrontarmi con quelli che dovrei considerare dei “fratelli nella fede” e che invece sono zombie che non sanno neppure che la Chiesa ha espunto la pena capitale dal suo Catechismo solo nel 2018, sull’onda del delirio teologico-politico rappresentato dal bergoglismo, corrente ideologica che strumentalizza la “dignità della persona” per mascherare una ispirazione profondamente irreligiosa.
Quegli animi gretti che assolutizzano la “nuda vita”, nemmeno riescono più a concepire quanto sia anti-cattolico pensare che uno Stato, persino il più ateo e materialista di tutti, possa togliere a un uomo la possibilità di salire in Paradiso estinguendone l’esistenza terrena. Si rendono conto, questi sedicenti cattoliconi, di quanto suonino ridicoli i loro appelli alla “sacralità della vita” se non accompagnati da una sincera negazione del destino ultraterreno dell’essere umano? Nessun giudice, uccidendo un malfattore, ha il potere di revocare il “fine ultimo” della sua esistenza. Semmai, da una prospettiva religiosa, c’è più responsabilità a lasciare in vita un colpevole fintamente pentito (e dunque quasi certamente destinato all’inferno) piuttosto che consegnarlo al volere divino tramite un’esecuzione. Mi permetto di rimandare chi volesse approfondire a questo mio articolo.
In conclusione, penso che in società fatiscenti come quelle occidentali la reintroduzione della pena capitale sarebbe un tonico in grado di rigenerare e rinsaldare quasi immediatamente i legami sociali, anche a spese di qualche “vittima sacrificale” (ma non si può ridurre qualsiasi giustiziato a povera vittima del sistema!). L’unica obiezione valida potrebbe riguardare il pericolo di fornire a un potere perverso tale potentissimo strumento, ma anche una radicalizzazione in tal senso consentirebbe almeno alle ideologie dominanti di imporre un ordine (e magari, in quanto incapaci di sostenerlo, squagliarsi al sole un istante dopo…).
dovresti guardarti “Constantine” con Keanu Reeves: baracconata spassosa (il demone di insetti viene spiacciato sul parabrezza di un auto), ongi tanto gli scappa qualche verità su anima, libero arbitrio, demoni,ecc.
L’unico argomento a favore della pena di morte è lo spettacolo. Che rinsaldi legami sociali è una puttanata non degna di te. In Giappone la pena di morte non ha reso quel paese il manicomio psicosociale che è.
Questo diniego della pena di morte e al contempo la sacralizzazione della vita terrena è figlio della degenerazione liberale-illuminista.
È la convinzione fallace e irenistica che l’uomo-essere umano è “naturalmente” buono ed la società cattiva che “lo corrompe”. (in primis quella dell’imperialismo europeo e dell’uomo bianco etero)
È la tabula rasa dell’uomo che può riessere modellato a piacimento tramite i fumosi concetti di “rieducazione” e “cultura”. Un pò come avviene nei confronti del problema delle periferie degradate dai figli degli immigrati extraeuropei in cui per poter compiere “un’integrazione vera” basta far leggere Dante e Michela Murgia – l’accostamento è ridicolo, ma è questo quello che oggi è la “cultura” – fare campetti, scampagnate, sagre e infine cedere quote di potere razziali a priori.
La sacralizzazione, il “povero cristo” in teoria dovrebbe essere “rieducato” tramite una purificazione morale del suo essere corrotto dalla società “cattiva”. È la società, in verità secondo la morale odierna frutto della degenerazione liberale-illuminista a dover essere “rieducata” verso questo povero cristo deviato dalla sua bontà “naturale”. Magari ruba i polli perché è vittima del “capitalismo di rapina”, se è afro-magrebino è vittima del “razzismo sistematico”, se si prostituisce o e un trans che fa atti osceni in luogo pubblico è vittima “dell’eteropatriarcato e dell’omotransfobia”, se spaccia o si droga è vittima del “proibizionismo “e di “un’ipocrisia bigotta”.
Come si vede, si capisce perché si vuole avere il maggior numero possibile di reietti umani, feccia parassitaria, nonostante l’alto costo sociale ed economico – visto che l’economia sembra il solo argomento utile -.
Una concezione auto assolutoria per molti, specie le menti più fragili e infime a cui non par vero che gli venga loro data la scusa facile per i loro fallimenti esistenziali.
E si vede anche l’ombra di un disegno da parte dell’odierno potere dominante per imporre un’ anarco-tirannia in modo da colpire i più reprobi e i meno cedevoli alla narrazione unica della Storia imposta coercitivamente.
Mi fermo qui per non sembrare troppo “complottista”… (Anche se stranamente sono cose concretamente reali…)
Concludo dicendo che la pena di morte non è la panacea di tutti i mali, ma non è neanche uno strumento barbaro. È piuttosto arduo (eufemismo) credere di “rieducare” chi si è macchiato di fatti inenarrabili o raddrizzare un’esistenza storta. Significa avere fiducia nell’essere umano.
E io sinceramente non ne ho.