Un ricordo di Navalny (parlandone da vivo)

È morto Alexei Navalny (Алексей Навальный), e io traslittero il suo nome come fanno gli anglosasky non perché copio dalla stampa straniera come i giornalisti italiani, ma perché credo che Aleksej Naval’nyj, per i valori che ha rappresentato, non meriti di essere chiamato che in tal modo: ecco perché per ricordarlo mi permetto di copia-incollare qualche pezzo, anche dalla stampa mainstream, scritto “in tempi non sospetti”

Navalny, l’anti-Putin che guarda al Caucaso
(Osservatorio Balcani e Caucaso, 29 febbraio 2012)

[… L’uomo simbolo delle proteste anti-Putin] è sicuramente Aleksej Navalny, giovane avvocato e blogger (classe 1976) che ha organizzato via internet una campagna anti-corruzione che ha portato alla luce casi scandalosi che hanno coinvolto grandi aziende a partecipazione statale. Grazie all’ampio seguito di cui gode nella vivace blogosfera russa, è diventato uno dei punti di riferimento delle proteste di questi mesi promosse prevalentemente proprio via internet. Navalny è però fortemente criticato dall’ala liberale del movimento per le sue posizioni dure riguardanti in particolare una questione: il Caucaso russo.

Intervenendo ieri sera ad un talk show su “Dožd ’” (“Pioggia”), un canale televisivo liberale che ha iniziato a trasmettere nell’aprile 2010 dove dibattono frequentemente partecipanti e organizzatori delle manifestazioni, Navalny ha dichiarato “non ho paura di dire che sono un nazionalista”, frase che in quella sede non poteva non dare inizio ad un accesa discussione. Come aveva fatto in passato, anche in quest’occasione, il blogger ha precisato che questo termine è spesso frainteso e che ritiene sia importante marginalizzare chi tra i nazionalisti sostiene soluzioni violente per dare spazio ad un nazionalismo che si basi su valori “europei” di democrazia e giustizia. Quando dice di voler imporre norme più severe sull’immigrazione, dice di farlo per tutelare meglio i diritti di chi vive e lavora in Russia (“non è giusto che i tagiki vivano negli scantinati di Mosca senza alcun diritto… voglio che abbiano gli stessi diritti e doveri degli altri cittadini”).

Quando sostiene la campagna “basta dar da mangiare al Caucaso”, dice che non lo fa per odio nei confronti dei caucasici, ma per sostenere il principio di uguaglianza tra chi paga le tasse (“non è giusto che alcune regioni della Russia finanzino indefinitamente le repubbliche del Caucaso del nord”) o a difesa degli stessi abitanti della regione (“stiamo finanziando un’élite corrotta che va in giro in Porsche Cayenne e spara in aria, le ville lussuose di Kadyrov, mentre la povera gente del posto vive a fatica di agricoltura”). Quando sostiene l’idea di legalizzare le armi in Russia, ricorda che è un diritto sancito da numerosi Paesi occidentali. Ma non esita a difendere un video diffuso qualche anno fa in cui lui stesso, seppur in un contesto “ironico”, prende in mano una pistola e spara ad una persona che rappresenta lo stereotipo del ribelle caucasico.

[…] Il botta e risposta di ieri sera sul canale Dožd’, nella parte riguardante il Caucaso, ricordava da vicino quello sentito qualche mese fa su radio Eco di Mosca, lo scorso 22 ottobre, giorno in cui si era tenuta una manifestazione intitolata proprio “Basta dar da mangiare al Caucaso” sostenuta dallo stesso Navalny. Così si era espresso allora il blogger: “Nei fatti, in Caucaso del nord esiste un regime legale diverso da quello esistente nel resto della Russia ed è stupido negarlo. Se per stabilire un regime legale sarà necessario stabilire uno ‘stato di guerra’ per vent’anni e limitare lo spostamento di persone e merci, facciamolo! […] Noi non interveniamo contro i caucasici come tali, ma contro il finanziamento di élite criminali. […] In Caucaso c’è molta più povertà che in qualsiasi altra repubblica della federazione. Ed è proprio la disproporzione tra un’élite ultraricca e la povertà diffusa che provoca violenza. Più soldi mandiamo lì, più ci sarà terrorismo, più ci sarà violenza e più di quei giovani esasperati verranno qui.” Argomenti chiari e tanto convincenti che in un sondaggio realizzato durante la trasmissione l’89% degli ascoltatori che si sono espressi si sono dichiarati a favore del motto “Basta dar da mangiare al Caucaso”.

Certo è che al di là dei singoli casi Navalny non solo ha riabilitato e legittimato il concetto di “nazionalista”, ma ha anche sostenuto e dato visibilità a persone che in tema di nazionalismo non si limitano alle frasi misurate del blogger anti-corruzione.

D’altra parte, non vi possono essere dubbi che Navalny (ma non solo) trovi supporto stuzzicando un nazionalismo anticaucasico latente in Russia che negli ultimi anni è esploso in varie occasioni, come quando nel dicembre del 2010 un’ondata di manifestazioni nazionaliste aveva attraversato il Paese. Ne è un esempio un concorso indetto recentemente per individuare i migliori poster da utilizzare nel corso della campagna anti-Putin negli ultimi giorni prima delle elezioni. Tra le centinaia di poster proposti, una commissione di noti blogger ne ha scelti 20. I primi due di questi, pubblicati nella pagina del concorso sul blog dello stesso Navalny lo scorso 27 febbraio avevano chiari riferimenti caucasici. Il primo diceva: “Il 99,47 della Cecenia ha votato per Putin. Vuoi forse andare in Cecenia?”. Il secondo invece: “Grazie di non partecipare alle elezioni. Firmato: i vostri caucasici.” Messaggi forse non immediati per l’osservatore esterno, ma ben chiari nel contesto moscovita in cui sono stati ideati, come esplicitano alcuni commentatori che descrivono così lo scopo di quei poster: “attraverso la diffidenza e l’odio nei confronti dei caucasici (che dentro di sé ha metà degli abitanti della Russia) esprimere l’odio nei confronti di Putin”. E ancora: “È solo un modo per dire: ‘Non amate i caucasici? Ma Putin è a favore dei caucasici!”

Per chi è abituato a pensare a Vladimir Putin come l’uomo che ha sostenuto una guerra senza quartiere in Cecenia e che tutt’oggi sostiene un regime di polizia che ricorre frequentemente a violenze e abusi, l’idea che il moscovita medio possa percepire Putin come un “amico dei caucasici” può suonare bizzarra. Ma tant’è… in Russia, tanti ce l’hanno con Putin proprio perché sarebbe troppo amico dei caucasici. Un amico che certo in molti preferirebbero non avere.

L’ipocrisia dei progressisti sul “nazionalista” Navalny
(InsideOver, 19 gennaio 2021)

C’è chi, addirittura, come il quotidiano La Stampa, l’ha definito il “Nelson Mandela” russo. Altri ancora, come il commentatore di punta della televisione di stato russa Rossiya, Dmitry Kiselyov, ha paragonato il ritorno in Russia di Aleksej Navalny a quello di Lenin dalla Svizzera nel 1917. “La forza di assalto non è esattamente delle stesse dimensioni, ma i tedeschi mantengono lo stesso repertorio. E ogni dettaglio dimostra che si preparano a qualcosa di speciale”, ha affermato, accusando implicitamente l’oppositore di essere un agente al soldo della Germania. Sta di fatto che l’arresto del blogger russo Navalny all’aeroporto di Mosca fa discutere tutto il mondo, occidente compreso. Con reazioni anche molto dure nei confronti del Cremlino.

“L’arresto di Alexej Navalny a Mosca è un’offesa alla comunità internazionale, all’Europa che ha contribuito a salvargli la vita. Chiediamo alle autorità russe il suo rilascio immediato. Siamo pronti a invitarlo al Parlamento europeo” ha twittato il Presidente del parlamento europeo, David Sassoli, mentre il segretario del Pd Nicola Zingaretti ha sottolineato che l’oppositore del governo russo “è un uomo coraggioso. Il mondo libero e democratico deve essere al suo fianco. Il Governo italiano e l’Unione Europea si attivino per il suo rilascio e per garantire i suoi diritti”.

[…] Oltre che avere più peso mediatico all’estero che in patria, ciò che i progressisti indignati si dimenticano di dire riguardo al blogger russo Alexsej Navalny è che fondamentalmente si tratta di un ultra-nazionalista con tendenze xenofobe. Molto più a destra di qualsiasi “sovranista” europeo. Per questo motivo, come ricordava InsideOver, fu cacciato dal partito liberale Jabloko nel 2007. Nonostante il sostegno del mondo progressista e liberal al blogger in chiave anti-Putin, pochi sembrano conoscere le sue reali posizioni. Come scriveva Peter Hitchens sul Daily Mail nel dicembre 2014, “pochissimi sembrano conoscere i legami di Navalny con il nazionalismo russo, posizioni che, in confronto, rendono l’Ukip inglese come l’avanguardia della correttezza politica”.

Engelina Tarejeva, che ha lavorato con Navalny quando era un membro del partito, lo accusa di essere un razzista: “Considero Aleksej Navalny l’uomo più pericolo della Russia – ha affermato – non c’è bisogno di essere un genio per capire che la cosa più orribile che possa accadere è che i nazionalisti prendano il potere”. Critiche a Navalny sono giunte soprattutto dopo la sua partecipazione a proteste razziste, tra cui la “Marcia russa” di Mosca nel 2011 e la campagna “Stop Feeding The Caucasus!”. Il blogger ha inoltre invocato la raccolta di firme al fine di introdurre il regime dei visti con i paesi del Caucaso e dell’Asia. In un video, ha paragonato i terroristi del Caucaso a degli “scarafaggi”da schiacciare”. Che ora i progressisti europei ne facciano un simbolo di libertà contro un regime dispotico è quantomeno curioso: […] la verità è che se il loro avversario politico fosse il blogger oppositore di Vladimir Putin, lo riterrebbero un pericolosissimo estremista. Ma come si dice in questi casi, il “nemico del mio nemico è mio amico”.

Tutto è cominciato quando gli investigatori russi avviarono un procedimento penale contro Navalny per accuse di appropriazione indebita di 356 milioni di rubli (4,7 milioni di dollari) su oltre 588 milioni di rubli (7,9 milioni di dollari) in donazioni a un certo numero delle sue organizzazioni, inclusa la Fondazione anticorruzione. Secondo gli investigatori, Navalny e alcune altre persone avevano speso questa somma per scopi personali. Nel luglio 2013, Navalny fu giudicato colpevole di appropriazione indebita dei fondi della società Kirovles nella regione di Kirov, nella Russia occidentale, e fu condannato a cinque anni. Il 30 dicembre 2014, il tribunale Zamoskvoretsky di Mosca giudicò i fratelli Navalny colpevoli di appropriazione indebita dei fondi di Yves Rocher e condannò Aleksej Navalny a una pena di 3 anni e 6 mesi.

Tra Navalny e Putin è un derby “patriottico”
(Avvenire, 6 febbraio 2021)

A dispetto dell’aura quasi devozionale che da lungo tempo la avvolge, la figura di Aleksei Navalny è un crogiuolo di contraddizioni. Ma dopo il maldestro tentativo di avvelenamento e il successivo arresto una volta rientrato in patria è sempre più difficile separare il suo carisma, il suo humour caustico, la sua lunga battaglia contro la corruzione nella Federazione Russa dalla complessa personalità dell’uomo e soprattutto dal suo passato. A cominciare – come svelò il ‘New York Times’ nel dicembre 2011 – dalla sua visione fortemente nazionalista dalle scoperte venature razziste e xenofobe. A un raduno di skinheads e di gruppi neonazisti vicini al controverso leader Zhirinovsky e all’Rnsp, il Partito nazionale socialista russo, paragonò pubblicamente i guerriglieri caucasici agli scarafaggi per via della loro pelle scura e i georgiani ai ratti di fogna.

In un’altra occasione – l’annuale Marcia Russa del 4 novembre che allineava movimenti anti-immigrazione, formazioni antisemite e nostalgici del fascismo – caldeggiò l’uso staliniano della deportazione di massa come ricetta ‘non-violenta’ per risolvere il problema dell’immigrazione clandestina: «Non occorre picchiare nessuno – disse –, è sufficiente allontanare inflessibilmente e deportare chi ci crea dei fastidi, chi inquina l’autentica radice russa».

[…] Crogiuolo di contraddizioni, si è detto. E non c’è soltanto il passato (e diciamo pure anche il presente) di Aleksei Navalny a confermarlo, ma la radice stessa delle proteste che a seguito del suo fermo si sono scatenate in tutta la Russia. Le centinaia di cittadini arrestati in questi giorni sono scese in piazza per protestare contro le élite, contro gli oligarchi, contro il proposito di Putin di perpetrare a vita il proprio potere, contro la brutalità del regime, contro la corruzione e, certamente, contro le accuse del tutto capziose nei confronti di Navalny.

Ma – come acutamente hanno notato l’analista del Carnegie Moscow Center Aleksandr Baunov e la giornalista Anna Zafesova – non si tratta necessariamente di proteste di intonazione filooccidentale, liberale, democratica. «Questa è una faccenda essenzialmente russa – si è scritto da più parti – dove due patriottismi assolutamente simili si fanno la guerra». Ed è questo il punto, forse. Il patriottismo, che secondo Putin «è l’unica possibile ideologia in Russia» e al contempo è il collante con cui ha costruito il proprio consenso, che fino a tre anni fa arrivava a sfiorare il 70% della popolazione. Un consenso che poggiava sul ponte gettato fra l’orgoglio nazionale recuperato con l’annessione della Crimea, la guerriglia nel Donbass, la sfida costante alla Nato, l’aggressiva penetrazione nei mercati del Terzo mondo e l’aggancio riuscito con la fede ortodossa, che settant’anni di ateismo di Stato non avevano sostanzialmente scalfito.

Patriottismo, parola magica che affonda nel passato (‘Grande Guerra Patriottica’ è la locuzione con cui in Russia si denomina la Seconda guerra mondiale) e riaffiora nel presente. Lo stesso spirito che anima Aleksei Navalny. E che per questo, solo per questo, non per la mobilitazione delle coscienze occidentali o le manifestazioni di piazza, rende Navalny l’unico vero mortale avversario di Vladimir Putin. Soprattutto perché con questo suo nazionalismo patriottico (i due termini in parte semanticamente si sovrappongono) è in grado di scavalcarlo da destra. La destra ‘patriottica’ da cui Navalny proviene.

Russia, “incitò all’odio”: Navalnyj non è più “prigioniero di coscienza” per Amnesty International
(Repubblica, 24 febbraio 2021)

Aleksej Navalnyj non è più “prigioniero di coscienza” per Amnesty International “a causa di commenti” nazionalisti e razzisti che ha fatto in passato. “Alcuni di questi commenti, che Navalnyj non ha rinnegato pubblicamente, rientrano nell’incitamento all’odio, che è in contraddizione con la definizione di prigioniero di coscienza data da Amnesty”, ha specificato l’ong in un’email ricevuta dalla France Press, assicurando che continuerà a lottare per il suo rilascio anche presentando al governo russo un appello firmato da quasi 200mila persone da 70 Paesi.

[…] Attivista anti-corruzione diventato negli anni uno dei più riconoscibili oppositori di Vladimir Putin, 44 anni, negli anni Duemila Aleksej Navalnyj aveva partecipato in passato a diverse Marce russe, annuali cortei di nazionalisti, e insultato i migranti provenienti dall’Asia centrale definendoli “roditori” e “scarafaggi”. Offese da cui ha preso le distanze, senza tuttavia rettificare esplicitamente le sue posizioni.

La decisione di Amnesty è stata criticata da diversi osservatori internazionali. Secondo i più stretti collaboratori di Navalnyj, l’ong ha ceduto a una campagna di diffamazione ordita dalle autorità. L’organizzazione sarebbe stata “bombardata” di messaggi che sottolineavano le posizioni xenofobe di Navalnyj: una “campagna orchestrata” per screditare Navalnyj, secondo il portavoce dell’organizzazione umanitaria a Mosca, Aleksandr Artemev, citato da Bbc.

Navalny è un perseguitato ma non è il Mandela russo
(Jacobin, 13 maggio 2021)

Il 18 gennaio 2021 La Stampa definiva Aleksej Navalny come «Il Nelson Mandela russo». […] Il mondo occidentale sembra essere a suo favore, ma il protagonista delle vicende che hanno scatenato i media europei degli ultimi mesi è anche un personaggio caratterizzato dalle poco velate ideologie razziste e xenofobe: come siamo arrivati a definirlo un modello? Un paragone certamente un po’ azzardato, quello con Nelson Mandela: originario della periferia di Mosca, Navalny è diventato popolare negli anni 2000 grazie a una fondazione anticorruzione, chiamata più comunemente Fbk, ma soprattutto facendosi conoscere tramite il suo blog (di cui esiste anche una versione inglese), in cui dà voce al dissenso popolare e conduce una lotta online al potere […].

La fama politica di Navalny ha cominciato così a basarsi principalmente sul successo come dissidente del web, ma non si è fatto mancare in passato varie dichiarazioni xenofobe: in un noto video del 2007, equipara i militanti musulmani a scarafaggi che possono essere eliminati solo con uno sterminio; nel 2011, si è dichiarato un nazionalista impenitente che espellerà spietatamente tutti gli immigrati non bianchi dall’Asia centrale e dal Caucaso; ha pubblicato un filmato in cui travestito da dentista definiva gli immigrati come una «carie nei denti» ed è stato inoltre tra i principali promotori delle manifestazioni legate alla Giornata dell’unità nazionale Russa, a cui partecipano organizzazioni di matrice neonazista e suprematista. Non a caso La Stampa nel 2012 dedicava a lui un titolo in cui lo chiamava Il blogger xenofobo che unisce la piazza.

Trasformato dai media occidentali in paladino della storia contemporanea (questa notizia ha infatti avuto molta più risonanza da noi che in Russia, non a causa della censura, ma perché la figura pubblica di Navalny non è quella dell’icona dell’opposizione presentata in Italia), Navalny non ha mai rifiutato le accuse o cercato di scusarsi per le sue precedenti dichiarazioni. Si è sempre dimostrato estremamente coerente nel rifiuto di sconfessarle, riprendendo alcuni dei commenti fatti al tempo della guerra russo-georgiana nel 2008, quando ha descritto i georgiani usando un epiteto razzista (tramite un gioco di parole al quale non ha saputo resistere: in russo i gruziny sono i georgiani, ma Navalny ha utilizzato il vocabolo gryzuny, che significa topi).

Secondo alcuni Navalny ha recentemente ammorbidito i toni, certo non per un sincero cambiamento di tipo morale: a dicembre in un’intervista con l’economista Sergei Guriev ha cercato di aggirare la questione, replicando allo stesso modo in un’intervista con il Financial Times – in cui non si fa scrupoli a insultare le persone omosessuali. In vista delle elezioni presidenziali del 2018, ha invece affermato di essere in disaccordo con le leggi anti-gay promosse dal presidente Putin. Forse proprio in questo risiede la grande abilità di Navalny: il fascino sul pubblico.

Non avendo smentito le parole di disprezzo e odio espresse in passato contro interi gruppi e categorie di persone, il 23 febbraio Amnesty International ha ritirato il nome di Aleksej Navalny dalla lista di prigionieri di coscienza. Quella dei prigionieri di coscienza è una categoria di cui fanno parte tutti coloro che sono stati imprigionati per ciò che rappresentano (razza, religione, lingua), ciò che sono (colore della pelle, orientamento sessuale) o per il loro credo politico – ne fanno parte, infatti, Patrick Zaki e Asia Bibi.

[…] La narrazione (che possiamo definire quasi tossica) dell’immagine stereotipata di Navalny come nuovo «paladino della democrazia» tramite una gigantesca risonanza mediatica è arrivata anche in Italia, a partire ad esempio da Lia Quartapelle, esponente della Commissione Esteri della Camera, che su Twitter ha rilanciato l’hashtag #IStandWithNavalny e #FreeNavalny, a favore della sua liberazione in seguito a una recente condanna a tre anni di carcere in cui è stato accusato di aver violato gli obblighi di una sentenza detentiva.

[…] La storia della mediatizzazione di Navalny dovrebbe spingerci a guardare la sua figura attraverso un occhio critico e cosciente, per accorgerci che quella del blogger russo è una delle tante finte immagini mediatiche di santi e dèi: è allora necessario chiedersi se lo scopo della sua propaganda giustifichi davvero le sue azioni, o meglio, se il tentativo di ergersi a simbolo dell’opposizione contro un regime che zittisce le critiche con metodi totalitari giustifichi dichiarazioni omofobe e razziste in una società che negli ultimi anni si batte ogni giorno per andare nella direzione opposta.

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