Clock: la maternità è l’unico vero orrore

Da almeno cinquant’anni a questa parte uno degli argomenti principali del cinema horror è la maternità: i “capostipiti” Rosemary’s Baby (1967), L’esorcista (1973) e The Omen (1976) hanno istituito i cliché del genere, che rendono le trame delle opere successive caratterizzate da topoi piuttosto scontati, riassumibili nella formula “O rimani incinta dell’anticristo; o ti nasce un figlio demoniaco; oppure partorisci un bravo bambino che verrà posseduto da un demone”. Tale impostazione porta alla caratterizzazione della maternità come fonte di paura, angoscia e morte, nonché di irrazionalità e ignoranza (rappresenta dalla protettività amorale della madre per il figlio mostruoso).

Gli esempi sono innumerevoli, e perlopiù mediocri (per questo saranno tutti spoilerati). Per limitarci solo agli ultimi anni, possiamo citare:

The House of the Devil del 2009 di Ti West: ambientato negli anni ’80, racconta la storia di una studentessa universitaria che viene assunta come babysitter dai membri di una setta che vogliono utilizzarla come “incubatrice” dell’anticristo. La maternità è una forma di oppressione che irrompe nella vita di una ragazza per toglierle ogni possibilità di realizzarsi come essa vorrebbe e conformarsi invece ai voleri di una setta, che in realtà è la società stessa.

La madre (Mama) del 2013 di Andy Muschietti: l’essenza della maternità è incarnato da uno spirito feroce ma protettivo, che salva due bambine dalla furia di un marito uxoricida e alla fine pretende una di queste tutta per sé. Le angosce legate all’essere madre sono amplificate dalla confusione della trama e dai messaggi ambigui presenti nel film.

Babadook del 2014 di Jennifer Kent: una vedova vuole difendere il figlio di sei anni da una misteriosa creatura ma credendolo posseduto tenta ripetutamente di ucciderlo, finché l’istinto materno non riesce a farle soggiogare il Babadook, il quale a sua volta pare aiutarla a superare la perdita del marito (tipico di pellicole del genere è distorcere le categorie morali facendo apparire il bene e il male come facce di una stessa medaglia, attraverso la presunta “amoralità” del naturale istinto di protezione verso la prole);

La stirpe del male (Devil’s Due) del 2014 di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett: girato come se fosse un montaggio di filmati rinvenuti nella videocamera di due sposini americani in luna di miele nelle Repubblica Dominicana, racconta la storia di una donna che viene drogata e stuprata dai membri di una setta per essere incintata -indovinate?- da un demone e concepire l’anticristo. La maternità nel film appare come un’esperienza totalmente negativa e il legame tra madre e figlio diventa un elemento intrinsecamente “demoniaco”.

Le radici del male (Hereditary) del 2018 di Ari Aster, riprende il tema della setta che vuol far nascere un anticristo, calandola in un ambito strettamente famigliare: una “matriarca” ha scelto sua figlia come incubatrice della nuova incarnazione del demone Paimon, ma per qualche strano motivo lo spirito infernale si impossessa nel corpo della sorella (mentre invece bisognava conferirle, ovviamente, un corpo maschile). Seguono decapitazioni e squartamenti assortiti. La famiglia è l’inferno in terra e la maternità è il mezzo principale attraverso il quale i traumi si trasmettono di generazione in generazione.

Vivarium del 2019 di Lorcan Finnegan: una giovane coppia alla ricerca di una sistemazione finisce in una dimensione parallela da cui non è possibile fuggire. Dopo un po’ all’uscio della loro casa trovano una scatola con dentro un bambino che i misteriosi padroni del quartiere intimano loro di allevare. Il bambino ha atteggiamento bizzarri e inquietanti che fanno impazzire i coniugi, i quali vorrebbero sbarazzarsene ma non riescono nemmeno a ucciderlo e alla fine ne sono sopraffatti: la donna muore sentendosi dire che il compito di una madre è crescere la prole e morire. Lo spettatore intuisce agevolmente che il bambino appartiene a una razza aliena parassitaria che sembra voler conquistare il mondo imitando il comportamento degli umani. Viviarum riduce il concetto di famiglia a fonte di alienazione e disumanizzazione, e la maternità a un’esperienza opprimente e priva di senso, che porta alla disgregazione della personalità e alla perdita dell’identità.

La Llorona (The Curse of La Llorona) del 2019 di Michael Chaves: il tema tradizionale del folklore sudamericano (lo spirito maledetto di una madre alla ricerca dei suoi figli morti) viene portato ai nostri giorni, per ritrarre la maternità come una delle forze più pericolose al mondo nel momento in cui si corrompe. Una madre single (ovviamente) deve proteggere i suoi bambini dalla minaccia dello spirito di una donna che trecento anni prima ha ucciso i propri figli per vendicarsi del marito fedifrago: l’istinto di protezione materno sembra non bastare di fronte a una minaccia soprannaturale, e allora viene chiamato l’uomo (l’uomo serve sempre), un sacerdote spretato diventato sciamano. Il senso di questi film, anche quando sembrano dare un significato positivo alla maternità, è comunque sempre quello di legarla a situazioni angoscianti e opprimenti.

Il figlio del male (The Prodigy) del 2019 di Nicholas McCarthy: una coppia dà alla luce un bambino che sin da subito accompagna a un’intelligenza fuori dal comune anche una marcata tendenza a far del male al prossimo. Dopo botte da orbi e omicidi vari, si scopre che il bambino è posseduto dallo spirito di un serial killer ungherese (lol). La madre, nell’espressione più cieca di istinto materno, vuole assecondare l’assassino uccidendo l’ultima vittima sopravvissuta all’aggressione, ma viene raggiunta dal bambino posseduto che riesce a farla franca e a farsi adottare da una nuova famiglia.

L’angelo del male (Brightburn) del 2019 di David Yarovesky: una giovane coppia non riesce ad avere figli e allora decide di adottare un bambino alieno appena schiantatosi di fronte alla loro fattoria (…). Il bambino è dotato di superpoteri che utilizza per eliminare chiunque si opponga alla sua conquista del mondo. La trama è tutta incentrata su come far fuori un figlio cattivo. Probabilmente se non ci fosse da infangare l’istituzione della famiglia e mostrare una visione cupa e distorta della maternità, filmacci del genere, brutti sia per forma (trama illogica) che per contenuto (effetti speciali ridicoli), non verrebbero neanche prodotti e pubblicizzati.

Matriarch del 2022 di Ben Steiner: una donna in carriera (lesbica e cocainomane) ha una crisi di nervi e ritorna a casa della madre-matriarca, una maniaca sessuale a capo di una setta che attraverso la magia sexualis sottomette gli abitanti di un paesino della campagna britannica.

Monstrous del 2022 di Chris Sivertson: la protagonista si crea una realtà alternativa in cui è una casalinga anni ’50 che sfugge dal marito violento con il figlioletto, mentre invece è una madre disperata del 2022 che ha perso il suo pargolo (affogato in piscina) e siccome non è riuscita a elaborare il lutto si è creata un universo parallelo popolato da mostri. Combinazione letale di anni ’50 (opprimenti e patriarcali per antonomasia) e delirio da “mamma orsa”.

La forma del male (Pahanhautoja) del 2022 di Hanna Bergholm: una ginnasta ossessionata dalla madre che vorrebbe sopperire ai propri insuccessi attraverso di lei, riversa le sue ansie su un uovo di corvo fino a farlo diventare un suo doppio mostruoso. Il tema del doppelgänger è ridotto alle dinamiche madre/figlia nella più banale prospettiva psicologica.

Questa carrellata serviva solo a un introdurre un nuovo “capolavoro” del genere, Clock, distribuito da Disney+ (me cojoni) a partire da fine aprile 2023 e diretto dalla regista (esordiente) Alexis Jacknow. Rispetto alle altre produzioni merita una parola in più non tanto perché sia in qualche modo migliore (anzi, è altrettanto scadente e noiosa) ma perché strumentalizza il tema della maternità in maniera esplicita.

La protagonista, Ella, è una “ragazza” 37enne che di mestiere è una “autorità del colore” (tipo armocromista?) e preferisce godersi la vita (villona con megapiscina, massaggi shiatsu, opere benefiche, il marito -di origine indoebraica?- che gliela lecca ogni sera) piuttosto che rovinarsela cagando fuori un moccioso. Purtroppo la pressione sociale interviene a farle venire i sensi di colpa e la suggestiona con le storielle sul fatidico “orologio biologico” (che lei proprio non riesce a sentire).

A tutto ciò si aggiunge la figura del patriarca, ebreo ortodosso sopravvissuto all’olocausto (almeno non è cattolico!), che continua ad assillare la figlia col suo desiderio di avere un nipotino perché “non siamo rimasti in tanti” (sì, si riferisce agli ebrei). Ella allora si reca da una dottoressa che le dice (in maniera molto credibile) che “tutte le donne hanno un orologio biologico” e la invia in una clinica, a metà tra campo di concentramento e caserma gestita da una setta, nella quale viene sottoposta a un programma sperimentale per sviluppare il desiderio di maternità.

Da lì in avanti la protagonista comincia ad avere l’inquietante visione di una “matriarca” altissima che sembra volerla a tutti i costi costringerla a farsi incintare. Nel momento infatti in cui il padre ebreo accetta la sua decisione di non avere figli, lei lo uccide come posseduta dallo spirito di quella “Commaraccia secca” saltata fuori chissà dove. Alla fine si scopre che era stato il marito a indirzzarla segretamente verso la clinica e a scatenare il demone nazi-satanico della fertilità, che porta la povera Ella ad uccidersi in un tentativo di interrompere il ciclo di sofferenze rappresentato dalla vita stessa (per questo nel finale appare una strana creatura simile a un pesce strisciare fuori dall’acqua, probabilmente a simboleggiare l’impossibilità di cancellare l’essere umano dalla faccia della terra).

Il film riprende diversi stereotipi del genere “horror materno”, come l’ossessione per le uova (da consumare preferibilmente col guscio), ma aggiunge anche elementi nuovi: al di là dell’ambientazione ebraica (piuttosto rara, nonostante la maggior parte dei registi horror sia di quell’etnia), che si riflette nelle superstizioni della protagonista (“L’universo sa quando sei felice e non gli piace”; “Il nostro è un Dio vendicativo”), si stabilisce in modo subdolo ma evidente un collegamento tra mentalità nazista e volontà di aver figli.

La protagonista collega esplicitamente il desiderio di maternità con l’incoscienza dell’uomo e della donna comuni che continuano a seguire il loro brutale istinto di sopravvivenza in un mondo dove l’unica salvezza è rappresentata dall’estinguersi: ma nemmeno chi ha visto l’inferno in faccia come i sopravvissuti dell’olocausto è disposto a rinunciare a riprodursi, una volontà cieca che porta anch’essi a diventare intrinsecamente “nazisti”.

Ce ne son voluti di decenni per arrivare a chiarire i reali motivi per cui la maternità sia divenuta tema elettivo del genere: per registi e sceneggiatori avere figli è il vero orrore, non le fabulae con cui tentano di mascherare la loro squallida e funesta dottrina.

4 thoughts on “Clock: la maternità è l’unico vero orrore

  1. Con le leggi attuali in Italia, avere figli per un uomo è davvero un orrore. Quindi ben venga che qualche film li faccia desistere, prima di finire in un baratro senza fine.

    1. Questa propaganda è rivolta alle donne, non c’entra nulla questo discorso, mica fanno film horror sui padri separati!

  2. Consiglio a Mister Totalitarismo la visione di “House of Dragon”, il prequel del Trono di Spade. Vi sono diverse scene in cui le protagoniste partoriscono aborti dopo travagli dolorosi con immagini raccapriccianti. Sembra che tutto sia stato fatto per impaurire le giovani spettatrici dal rimanere incinta se poi “può succedere quell’orrore che si vede sullo schermo”. Il tema della maternità in generale è trattato con estrema ambiguità e doppiezza, ci sarebbe da scrivere un approfondimento.

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