Il 17 aprile 1975 i Khmer rossi strappavano Phnom Penh alle forze governative e si impossessavano del Paese. Un episodio storico dai contorni ancora poco chiari, soprattutto da una prospettiva internazionale, poiché da una parte furono gli americani a propiziare indirettamente l’avvento di Pol Pot imponendo con un golpe la successione da una stabile monarchia a una inconsistente “repubblica”, e dall’altra gli stessi obbligarono l’ONU a lasciare il seggio cambogiano ai Khmer rossi fino al 1982, un atteggiamento che rispecchia un segreto ancora indicibile, ovvero che Washington sostenne in funzione antisovietica (a quanto pare non solo diplomaticamente, ma anche militarmente) uno dei regimi comunisti più spietati di tutti i tempi.
Non è tuttavia di questo che vorrei parlare, anche se comunque è stato scritto troppo poco al riguardo e peraltro non è mai stato fatto un ragionamento approfondito sulle dinamiche con cui gli Stati Uniti scelgono i loro proxy warriors, dall’Afghanistan al Tibet e dalla Libia all’Ucraina (giusto per citare qualche episodio più recente).
Ad ogni modo, se dovessi discutere della Cambogia di Pol Pot muovendomi dalla situazione odierna più in generale, sarebbero tre i punti che affronterei: autogenocidio, austerity e karma.
Autogenocidio è un concetto coniato proprio per descrivere quanto accadde in quegli anni terribili, nei quali è impossibile rintracciare un criterio logico in grado di spiegare i motivi per cui siano stati ammazzati milioni di cambogiani: è vero che talvolta i khmer colpirono sistematicamente alcune minoranze come i musulmani o i vietnamiti, ma questo non fu che un elemento accidentale della loro opera, al pari di qualsiasi giustificazione politica dietro agli stermini (anche portare un paio di occhiali, come vedremo, ti rendeva “nemico di classe”).
Un precedente viene rintracciato dallo storico Reynald Secher nelle guerre della Francia rivoluzionaria contro i vandeani, periodo definito appunto génocide franco-français: per quanto i metodi e le dinamiche fossero le stesse, va però osservato che l’etichetta di “autogenocidio” non calzerebbe alla perfezione in virtù della presenza di almeno un senso attorno a quei massacri non riconducibile esclusivamente all’idea di “autosterminio”.
Ciò che invece si deduce con sgomento dal caso cambogiano è che l’obiettivo principale di Pol Pot sembra proprio l’eliminazione del popolo a cui appartiene, in una spirale dove l’insensatezza dei fini corrisponde all’insensatezza dei mezzi, ovvero un sadismo senza limiti, con i quali raggiungerli.
Tale sadismo si esprime sia negli episodi di cannibalismo, sia nella ferinità dei metodi di esecuzione, sia nella decisione di “estirpare il male alla radici” sterminando l’intera famiglia di chi fosse considerato “nemico” dal regime (compresi i neonati, che evidentemente era inutile rieducare al socialismo). Si può comunque rintracciare qualche radice ideologica dietro tutto questo: al di là della proverbiale spietatezza orientale che lascia sbalorditi di fronte, per esempio, all’usanza degli addetti ai campi di consumare le cistifellee dei prigionieri uccisi (così come talvolta il fegato o il cuore) facendole essiccare al sole e poi immergendole nel vino per “farsi forza” (un rituale piuttosto diffuso in diversi parti dell’Asia orientale, dove peraltro la bile -di animale s’intende- è ingrediente fondamentale sia della medicina tradizionale che della cucina di tutti i giorni), l’utopia polpottiana è principalmente espressa dall’applicazione dell’austerity ai metodi di sterminio.
Come è noto, nei campi di sterminio come Choeung Ek era fatto obbligo dal regime di non “sprecare” costosi proiettili per l’esecuzione, ma di servirsi di pale, vanghe, picconi, canne di bambù affilate oppure di procedere a mani nude in maniera tanto brutale quanto poco “sbrigativa”. Mi sembra si possa individuare un invisibile legame tra austerity e autogenocidio, nell’assunto stesso chele risorse siano limitate e dunque si debba consumare meno del necessario, fino a giungere -anche fuori di metafora- a divorare se stessi (fa specie che gli episodi di cannibalismo in tal caso abbiano sempre una matrice “magica”, seppur non si possa negare un qualche grado di soddisfazione, jouissance -sempre sadica- nel riempirsi lo stomaco con il fegato di un “borghese” appena ucciso e lesinando così su altre “proteine” -come si dice oggi- di origine vegetale o animale).
Il terzo concetto, che forse rappresenta l’invisibile legame tra i primi due, è il karma. Per parlarne voglio partire da lontano, precisamente dal volume A Cambodian Odyssey di Haing Ngor, scrittore un tempo celeberrimo negli Stati Uniti non solo per aver vinto un Oscar come miglior attore non protagonista in Urla del silenzio, pellicola inglese del 1984 ispirata alla sua testimonianza, ma anche per le circostanze (molto “culianesche”) in cui venne ucciso: assassinato nel 1996 a Los Angeles da una gang di asiatici, si vocifera su ordine dello stesso Pol Pot.
Lasciando però da parte il “contorno” dell’affaire Ngor (dalla verosimiglianza delle testimonianze da egli raccolte – sulle quali, non riguardando la Shoah, è comunque consentito dubitare – al clima da Guerra fredda che ne favorì il successo), vorrei rimarcare alcuni spunti interessanti tratti dal suo volume.
Il primo in realtà rappresenterebbe solo una conferma di quella storia, a cui si è accennato più sopra, che i khmer rossi sterminassero in automatico chiunque possedesse un paio di occhiali. Ngor cita un comizio di un khmer rosso al quale egli afferma di aver assistito, ma non mi pare che tale testimonianza sia mai stata presa in considerazione dagli storici:
«Perché certe persone tra di noi indossano ancora occhiali? Per cosa li usano? Non riescono a vedermi? Se ti vengo incontro per prenderti a schiaffi, tu ti sposti e allora vuol dire che ci vedi bene. Quindi non avete bisogno degli occhiali. Quelli che li indossano vogliono sembrare belli secondo i canoni estetici dei capitalisti, li indossano perché sono vanitosi. Non abbiamo più bisogno di gente del genere! Le persone che pensano di essere belle sono scansafatiche! Sono sanguisughe che succhiano le energie degli altri».
Parentesi a parte, veniamo al tema più importante, per l’appunto il kama, o “karma”: l’Autore è piuttosto critico verso un concetto che ha entusiasmato gli occidentali per decenni, in quanto a suo parere esso avrebbe fornito una giustificazione religiosa alle torture del regime in base all’assunto che tutto ciò che subiamo in questa vita è il prezzo da pagare per le cattive azioni compiute nelle esistenze precedenti.
Ngor narra alcune delle atrocità a cui assistette nel campo di concentramento (come le crocifissioni e i roghi degli “scansafatiche”), ricordando anche i supplizi da egli stesso subiti (come quando i guardiani gli tagliarono il mignolo e la caviglia e fecero “pascolare” le formiche rosse sulle ferite), denunciando la rassegnazione con cui le vittime accettavano il proprio “destino”.
Il comunismo sembra passato di moda (per così dire), mentre invece l’orientalismo d’accatto che ha contribuito alla diffusione del karma in occidente gode ancora di ottima salute: forse è anche per questo che gli studiosi hanno completamente sottovalutato il ruolo dei khmer rossi in qualità di polizia del karma, cioè di perpetratori di un genocidio autorizzato dal fatalismo buddhista innestato sull’Angkar, la versione polpottiana del maoismo (l’argomento è del resto snobbato anche dagli esperti degli intrecci tra buddhismo e comunismo).
Il passato è passato, come si dice, ma il motto non nega che si possa, in prospettiva, trarre preziose lezioni da quanto accaduto, anche in maniera molto banale, per esempio valutando il modo in cui idee all’apparenza neutrali o innocue ispirino la violenza più cieca e selvaggia. In fondo quanti ancora, al giorno d’oggi, non ragionano sulle conseguenze estreme dei loro paradigmi così irenici, tolleranti e intrisi di buone intenzioni, portando inevitabilmente una comunità ai limiti della guerra civile, che per l’umanità moderna si è effettivamente tradotta spesso in autogenocidio?
La Cambogia di Pol Pot parla a noi oggi più di quanto faccia la Shoah.
Ora lasciamo perdere il buddhismo che nel nostro contesto non è nient’altro che una paccottiglia esotica dell’Occidentale post-cristiano che rinnegato il suo Dio, ma sente ancora il bisogno di “credere”, anche se venerare il Buddha e venerare Taylor Swift è per lui spiritualmente la stessa cosa.
Ben diverso ciò che allude lei ovvero quell’agghiacciante analogia che sta avvenendo in Occidente.
Anche qui abbiamo liberalismi e socialisti universalistici apparentemente innocui che si riempiono di belle parole prone a realizzare la massima felicità e uguaglianza possibile e innalzare una pace perpetua abolendo tutte le differenze di classe, razza, sesso, condizioni sociali, instaurare un Bene Assoluto dopo il Male Assoluto amputabile all’Europa, dall’Uomo Bianco proprio all’insegna di un karma purificatore ed espiatore che qui sono “gli Orrori della Storia” da noi compiuti, la Shoah, il colonialismo, la schiavitù, il razzismo, il “femminicidio” ecc…
Per questo si propone di eliminare tutto ciò che può essere fonte di dolore e sofferenza, in primis naturalmente – ca sans dire – l’Uomo Bianco.
Ci si sta convincendo – ovviamente sempre in nome del Bene Assoluto – della sua eventuale soppressione FISICA in quanto irrimediabilmente inguaribile dai suoi “mali”- razzismo, sessismo, omofobia e varie cantilene – sia lui il vero ostacolo a una concreta uguaglianza e alla perpetua eudemonia.
Credo che QUESTO sia il pensiero alla base dei proclami universalistici odierni, credo che questo sia il pensiero non ancora esplicito – ma ancora per poco – che aleggia nella maggior parte delle donne occidentali, dei negri, dei migranti e altri accoliti di esseri “emarginati e discriminati” in quale si nasconde in verità una vendetta purificatrice verso chi in molti casi si è rivelato migliore di loro.
Purtroppo stiamo vedendo che proprio come i cambogiani intrisi dai loro concetti di karma, molti uomini bianchi stanno accettando questa loro soluzione finale, più di quanto immaginiamo visto la totale assenza di reattività di fronte all’ondata di merda e odio che quotidianamente ci viene lanciato.
Si sono ormai piegati anche loro al karma occidentale, che come dicevo poc’anzi, è il senso di colpa per “gli orrori della Storia” per il fatto di essere stati parte di un sistema di “privilegio bianco e patriarcale”, ci si è convinti che sarebbe meglio un autogenocidio e un sacrificio umano se serve a costruire un’autentica società egalitarista, liberale, antifascista e sconfiggere la violenza, l’odio, il “razzismo”, il “sessismo”, “l’omofobia” e via dicendo.
Proprio come pensavano i khmer rossi, proprio come pensavano i cambogiani che si sono lasciati macellare.
Meditate gente
https://www.facebook.com/reel/1487850785499898