L’immagine dell’assassinio dell’ambasciatore russo in Turchia Andrej Karlov ha vinto il più importante concorso internazionale di fotogiornalismo, il World Press Photo of the Year. Si tratta di una decisione a dir poco indecente, anche se va riconosciuto che la scelta non fosse molto ampia, dato che le altre foto erano quasi tutte dedicate all’immigrazione.
La giuria, forse timorosa che l’estetica terzomondista potesse alla lunga stancare il pubblico, ha preferito dunque optare per un atto terroristico, del resto già glorificato dalla stampa internazionale non solo come gesto eroico (dopotutto la vittima era un “lacchè di Putin“), ma come vera e propria opera d’arte: «La scena potrebbe essere quella di un martirio moderno ad opera del più teatrale dei pittori, Caravaggio», ha affermato infatti il critico americano Jerry Saltz in una “recensione” ai limiti dell’invasamento (Considering the Ankara assassination photos as history painting, “Venture”, 20 dicembre 2016).
Anche dalle nostre parti non ci siamo fatti mancare di nulla, come dimostra il rapimento estatico di Paolo Di Stefano sul “Corriere” (Fotografia di un omicidio. Se a vincere è la freddezza, 13 febbraio 2017):
«[…] Vince la distanza, il gelo: non c’è niente che ci commuova davvero. Neanche il corpo dell’ambasciatore russo Andrei Karlov appena ucciso, disteso esanime sulla schiena e colto in una prospettiva insolita: ciò che vediamo meglio di lui è la suola consumata di una scarpa, poi le gambe e il pancione che nasconde la testa, la giacca rimasta come irrigidita dal colpo. Lui, il giovane assassino, un poliziotto turco, potrebbe essere un protagonista di Tarantino, una iena lugubre ed elegante, ben rasata, vestita di nero, cravatta nera, camicia bianca, scarpe nere lucide. A vederlo da lontano, il gesto del braccio è quello plastico di John Travolta ne La febbre del sabato sera […]».
Non per essere polemici, ma quando Marine Le Pen pubblicò su Twitter le foto delle decapitazioni dell’Isis, venne indagata per “diffusione d’immagini violente”. Temo che non l’avrebbe fatta franca nemmeno se si fosse fatta prendere anche lei dal delirio estetico (Questo è puvo Cavavaggio, hanno pevsino usato una scimitavva!). Insomma, stiamo facendo sul serio? Anche il “Guardian” si è sentito in dovere di ricordare che the Russian ambassador’s assassination was no work of art.
Non so cosa stiamo diventando, ma visto che siamo in vena di ricercatezze, tutto questo mi fa ripensare a una citazione di Karl Kraus da Gli ultimi giorni dell’umanità (che tornò in auge con l’esibizione del cadavere di Gheddafi):
«Non solo abbiamo impiccato, ma ci siamo anche messi in posa, e abbiamo fotografato non solo le esecuzioni, bensì anche gli spettatori, e addirittura i fotografi. E il particolare effetto della nostra mostruosità è che quella propaganda nemica, che invece di mentire si è limitata a riprodurre le nostre verità, non ha nemmeno avuto bisogno di fotografare i nostri misfatti perché, con sua grande sorpresa, ha trovato le nostre fotografie dei nostri fatti sul luogo stesso del delitto, dunque noi “al naturale” in tutta la nostra ingenuità, ignari del fatto che nessun delitto potesse denudarci agli occhi del mondo quanto la nostra trionfante ammissione, come la fierezza del delinquente che si fa anche “riprendere” e sfodera un bel sorriso, perché è contento da matti di poter cogliere se stesso sul fatto».