Israele tra la Sindrome di Sansone e il Mito di Masada: ma quanti devono ancora morire per dare una nazione agli ebrei?

In un cablogramma risalente al gennaio 1975 e trafugato meritoriamente una decina d’anni fa da Wikileaks, un diplomatico americano dall’Arabia Saudita metteva sotto accusa Israele per la sua ostinatezza a rifiutare la pace: «Piuttosto che prepararsi alla quinta, sesta, settima guerra arabo-israeliana, gli israeliani potrebbero esaminare più attentamente di quanto abbiano fatto finora l’alternativa di un accordo pacifico con gli arabi».

L’ambasciatore statunitense utilizzò toni decisamente duri nei confronti del “migliore alleato” di Washington: «Prima di parlare di sterminio, e prima di permettere che il complesso di Masada o quello di Sansone diventino un’ossessione, gli israeliani potrebbero utilmente rivedere la propria posizione».

Tali “complessi”, ai quali nel 1973 Golda Meir aggiungeva quelli “del pogrom” e “di Hitler”, appartengono ai miti fondativi della nazione ebraica. Sembra davvero che l’unico orizzonte di sopravvivenza per Israele debba sempre contemplare una qualche forma di apocalisse. Questo lascia, naturalmente, pochissimo spazio per qualsiasi iniziativa diplomatica.

Anche in questi frangenti, la ritorsione israeliana sembra dettata dalla schizofrenia: prima le autorità ebraica annunciano una “nuova Dresda” su Gaza, poi alla prima strage di civili piagnucolano dando la colpa ad Hamas; Tel Aviv fa la faccia truce e urla al mondo intero la propria rabbia, eppure non riesce nemmeno a elaborare una strategia potenziale che possa in qualche modo risolvere la “questione palestinese”; gli israeliani vogliono agire unilateralmente e però a conti fatti pendono dalle labbra degli Stati Uniti, dei quali riflettono l’incoscienza e il disorientamento.

Il punto principale, a mio parere, è che tutti i “complessi” di Israele impediscono a tale nazione di muoversi sul piano internazionale in maniera razionale: si dice che tale confusione sia, nel bene e nel male, espressione di uno spirito democratico che non può rifuggire le contraddizioni e che farebbe quindi della “perplessità” [nevukh] un valore.

In verità questa sembra una lettura troppo ottimistica. Propongo un esempio simbolico: su Twitter un seguitissimo imprenditore israeliano ha rivolto un appello agli “amici europei” invitandoli a sostenere Israele perché “Se Israele non vince, voi sarete i prossimi”, e nel farlo ha pubblicato il video di un gigante di pietra effigiato col vessillo sionista (e spiacevolmente evocativo di un Golem) che tenta di fermare un masso gigante (emblema del terrorismo islamico) diretto su una cittadella (simbolo, ovviamente, dell’Europa), che però crede che sia lui il nemico e comincia ad attaccarlo, gesto che indispettisce il gigante costringendolo infine a far schiacciare dal masso la “Città Europa”.

Posto che nel cortometraggio originale è il Golem a causare la frana (eventualità che ha offerto il destro a quanti sostengono che sia la condotta di Israele a suscitare la minaccia islamica, e non viceversa), tuttavia stupisce il ricatto morale implicito nel messaggio: se l’Occidente non combatte le battaglie di Israele, allora che muoia pure “con tutti i filistei”.

È probabilmente tale atteggiamento ad aver portato l’unico vero alleato di Israele, gli Stati Uniti, a disamorarsi completamente della “santa causa”: al di là degli ultrasessantenni, il sostegno delle nuove generazioni allo Stato ebraico attualmente nei sondaggi ha toccato i minimi storici. Si vocifera, seppur da fonti non confermate, anche di uno scontento sempre più diffuso fra le truppe per il pericolo di dover nuovamente combattere per una nazione che comunque non riesce davvero a sentire come “amica” (e sarebbe surreale chiamare in causa l’antisemitismo anche per questo).

Solamente il contributo economico americano a Israele supera i 150 miliardi di dollari dalla sua creazione (un conto che non annovera tutte le altre iniziative assunte da Washington per poter garantire allo Stato sionista degli alleati nell’area). Se il costo politico fosse quantificabile, probabilmente sarebbe più alto: si pensi a tutte le volte che gli USA hanno usato il potere di veto alle Nazioni Unite per proteggere Israele dalle risoluzioni e impedire indagini internazionali sui suoi crimini di guerra.

Anche dal punto di vista sociale, tale costo “inquantificabile” non è più sostenibile dagli Stati Uniti nonché dall’intero Occidente, per il semplice motivo che negli ultimi decenni le nostre società sono profondamente cambiate e da Los Angeles a Bruxelles, da Milano a Londra e da Berlino ad Amsterdam i goyim si trovano alle prese con masse di immigrati musulmani ormai in grado di esercitare una pressione fortissima sui rispettivi governi nazionali, attraverso le proteste pacifiche, ma anche la microcriminalità o direttamente gli attentati.

Non è “complottismo” affermare che le autorità israeliane, non solo quelle di “destra”, abbiano tentato di strumentalizzare il problema dell’immigrazione per far sì che l’Occidente si convincesse che Tel Aviv e le città di cui sopra stessero affrontando una medesima minaccia, sia da una parte per favorire la migrazione degli ebrei occidentali e rimpinguare la demografia declinante della nazione, sia dall’altra per garantirsi il sostegno perpetuo almeno delle forze conservatrici (avendo perso da tempo quello dei “progressisti”, che comunque continuano a dettare legge a livello di opinione pubblica e mainstream: altro elemento “schizofrenico” della diplomazia israeliana).

Eppure sono proprio tali cambiamenti sociali a spingere le “nuove destre”, almeno in America, a rifiutare ideologie ormai logore come il neoconservatorismo o l’evangelismo fondamentalista, e a rivolgersi semmai a posizioni nazionaliste o isolazioniste in politica estera (persino uno come Donald Trump se ne rende conto, tanto che prova costantemente a tenere il piede in due scarpe, atteggiamento in ogni caso apprezzabile considerando il sionismo sfegatato degli altri suoi competitor repubblicani).

Per ritornare, in conclusione, allo scenario attuale, Israele minaccia di radere al suolo Gaza ma al contempo sostiene la farsa umanitaria di consentire ai civili di fuggire (e alcuni suoi rappresentanti auspicano addirittura vadano tutti in Europa, così da non dover nemmeno garantire il “diritto al ritorno” a chi è sfollato in Egitto o in Giordania). Nonostante le fanfare sulla preparazione militare della “Svizzera del Medio Oriente”, il portavoce dell’esercito non è nemmeno in grado di spiegare quali saranno le prossime fasi dell’offensiva: terra? aria? mare? Risposte non pervenute.

È chiaro che da una prospettiva metapolitica (non parliamo più di “geopolitica”), Israele è votato ad attaccare dall’alto ed eventualmente porre uno rigido stato d’assedio sulla Striscia di Gaza, proprio in virtù della logica dell’impossibilità di stipulare una tregua o controllare un territorio in cui non detiene una predominanza etnico-religiosa.

Tuttavia a un certo punto dovrà pur essere sviluppata un qualcosa di simile a una fase terrestre: le prospettive di riuscita sono però scarse, ed è evidente che, nonostante le apparenze, l’esercito israeliano rischia perdite ingenti in un conflitto “casa per casa” dove gli unici nemici rimasti sono agguerritissimi e volti al martirio. L’opzione più probabile è una campagna intensa di bombardamenti sul confine e l’occupazione di una fascia di territorio ormai devastata. Fino alla prossima Apocalisse.

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