La corazzata delle palme

Sulle palme in Piazza Duomo, partiamo dalla (amara) conclusione: si è trattata solamente di un’operazione di marketing e come al solito ci siamo cascati. Le palme dovevamo metterle subito tra le tombe etrusche e il monte Fumaiolo (per citare Vittorio Gassman); invece anche il fatto che si continui a parlarne fa aumentare gli emolumenti di chi ce le ha piazzate.

Come ha rilevato giustamente un consigliere comunale, «la sponsorizzazione di Starbucks per le aiuole di palme e banani in piazza del Duomo vale circa 220mila euro, una cifra non congrua alla pubblicità ricevuta. La pubblicità fatta all’azienda vale molto di più».

Se infatti fin dall’inizio fosse stato detto esplicitamente che si trattava dell’iniziativa di una multinazionale americana, i due schieramenti non sarebbero stati così netti: invece è stato tutto presentato alla chetichella, si è parlato in modo generico di un “grande brand”, di un “restyling sponsorizzato” ecc…

Così da una parte la destra si è schierata contro l’africanizzazione (ma se avesse saputo l’identità dei committenti sarebbe stata molto più cauta), mentre la sinistra ha iniziato a difendere le palme come nuovo simbolo antifascista al pari di Hillary Clinton, Steve Jobs o della stessa Starbucks (che ha promesso di assumere “migliaia di rifugiati” non per pagarli di meno ma per “sfidare Trump”).

Lo scontro si è quindi inasprito, e da una parte sono saltati fuori banane di plastica e accendini (ma quel signore che ha bruciato la palma è stato già arrestato, o comunque lo sarà tra quattro minuti, così intanto adesso è in galera, poi si vedrà), e dall’altra tutto l’armamentario da ceto medio semicolto (i giardini Liberty, gli allestimenti di fineottocento-inizionovecento, lo scrittore tal de’ tali che in un racconto immaginava un boschetto nel centro di Milano, l’artista tal de’ tali che ha disegnato una palma al posto della Madonnina, il filantropo tal de’ tali che voleva centomila salici in centro e Starbucks ha realizzato il suo sogno!, ecc…).

Sembra davvero che tutto sia avvenuto alla chetichella, se persino il sindaco (!?) si è detto “stupito” e “perplesso”, e anche chi era favorevole al progetto precedente (l’“orto urbano”), una volta subentrati gli smerciatori di broda, è insorto parlando di “omologazione delle multinazionali”.

Personalmente anche quel progetto mi era sembrato discutibile; al riguardo trovo ancora condivisibili le osservazioni dell’architetto Tagliaventi (Gli orti urbani: un bruttissimo segno, “Ecquo”, 11 settembre 2013):

«All’inizio del XV secolo, l’ambasciatore del Regno di Castiglia, appena rientrato da Costantinopoli, fece un rapporto sconvolgente. La città sembrava abbandonata. Non c’era più continuità tra i vari quartieri, il verde aveva preso il sopravvento. C’erano prati ovunque e orti urbani. Ormai circondata dai Turchi che avevano spostato la capitale in Europa e si accingevano ad assediare l’antica capitale dell’Impero Romano, Costantinopoli era una città in pieno declino. Gli edifici cadevano a pezzi. le rovine erano ovunque e, dove non c’erano rovine, erano comparsi gli orti che l’Imperatore aveva permesso di coltivare dato che la città non aveva più una sua campagna, un suo territorio agricolo. […] All’interno delle mura teodosiane, sui sette colli che avevano ospitato la grande capitale dell’Impero fondata da Costantino, la città era come evaporata, gli edifici scomparsi, il verde, la campagna, gli orti dilagavano là dove c’era stata nel V secolo e, poi, nel X secolo, la città più grande del mondo. Era la fine.
[…] Quando compaiono gli “orti urbani” in una città non è mai un buon segno. […] Quando una città smette di crescere, perde abitanti e, addirittura, aumenta comunque la sua superficie urbanizzata, è sempre un brutto momento. Il declino è iniziato e la comparsa degli “orti urbani” è una specie di cartina al tornasole. Nel 1943-45, durante gli anni più cupi della Seconda Guerra Mondiale, le città italiane vennero letteralmente invase da tonnellate di terra da coltivare nel disperato sforzo da parte del regime fascista di offrire un sistema di sostentamento alla popolazione. Le immagini degli orti in Piazza del Duomo a Milano e in Piazza Castello a Torino sono spaventose […]».

Tuttavia bisogna ammettere che il concetto di “orto urbano” aveva almeno un precedente prestigioso (e anche all’avanguardia, rispetto a certi allestimenti ispirato all’esotismo ottocentesco): i Barbapapà. In una delle illustrazioni della disegnatrice Annette Tison (anche lei architetto, o architetta, che dice oggi la Presidenta?), notiamo infatti che davanti al Barbaduomo compare proprio un Barbaorto:

Rispetto alla botanica “moderata-conservatrice” dei Barbapapà (che, come afferma Marine Le Pen, oggi voterebbero Sarkozy), fatta di mirtilli, fragole e arance (un fondamentalismo agroalimentare che i milanesi hanno potuto apprezzare al padiglione francese di Expo 2015), le palme potrebbero in effetti apparire come un elemento genuinamente “milanese”.

Tuttavia, e qui veniamo al punto più importante, Milano non può ridursi a questo sensazionalismo puerile, a una “sbrodolata e napoletana ingenuità” (C. Pavese). L’arbitrarietà di taluni provvedimenti è profondamente irritante: da troppi anni tutto ciò che è pensato per “attrarre” nasce col presupposto che debbano essere attratti soltanto i deficienti.

Milano ha ancora tante possibilità (così si dice), ma se tale l’andazzo tra pochi decenni non rimarrà più alcun antidoto alla cretinizzazione. Oggi, per esempio, alle ridicole pubblicità sulla facciata del Duomo può ancora rispondere un San Bartolomeo con la raffinatissima veste in pelle umana (la sua, peraltro).

E a queste palme farlocche si potrà ancora opporre la palma in rame della cripta di San Sepolcro, commissionata dal cardinale Borromeo nel 1616: ma una volta che la bellezza verrà definitivamente sepolta, chi andrà più a cercarla?

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