La sostituzione etnica comincia dalle urne

«Se i partiti non rappresentano più gli elettori, cambiamoli questi benedetti elettori!»
(Corrado Guzzanti,  Il libro de Kipli, 1992)

Elon Musk sta combattendo una sacrosanta battaglia (beato lui che può permetterselo) sulla questione dell’immigrazione negli Stati Uniti, rivelando sul suo X il “Segreto di Pulcinella”, ovvero che le amministrazioni democratiche sono interessate a far entrare il maggior numero di clandestini negli Stati Uniti per dirottarli in quegli Stati dove non è richiesto alcun documento per votare.

Sì, si fa fatica a credere che in quella che viene definita “la democrazia più importante al mondo” le elezioni nazionali assomiglino alle famigerate “primarie del PD” dove si vede regolarmente un assembramento (anche in tempi di pandemia!) di nordafricani, cinesi e zingari.

L’obiettivo di fondo infatti è il medesimo: una volta operata la sostituzione etnica a livello sociale, abitativo, assistenziale, lavorativo, mediatico ecc… non resta che togliere agli “autoctoni” anche l’ultimo strumento che hanno a disposizione, ovvero il voto. Per certi versi è un esito coerente: non è possibile infatti che la sinistra, sponsorizzata dall’alta finanza e da “agenzie culturali” di oscura affiliazione, nonostante segua alla lettera i dettami di tali potentati alle urne debba sempre arrancare a causa del malcontento degli indigeni.

Il fenomeno finora è stato analizzato da una prospettiva accademica solo dall’antropologo canadese Maximilian C. Forte, che ha tratto due esempi storici nientedimeno che dal portale ufficiale del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti d’America: il primo caso riguarda la Guyana sotto il governo di Forbes Burnham e del People’s National Congress (PNC), che puntò sull’ingresso di immigrati neri (di antica origine africana) dalle vicine isole più piccole dei Caraibi in modo da stemperare la maggioranza indo-guyanese, sostenitrice del partito d’opposizione.

Un fenomeno simile si verificò poi a Trinidad e Tobago, sotto il governo filoamericano di Eric Williams e del People’s National Movement (PNM): l’immigrazione massiccia da Grenada e St. Vincent portò ad un significativo allargamento della base elettorale del partito.

In tutto questo bailamme, resta da capire se l’immigrazione sia un mezzo o il fine dei piani di ingegneria sociale delle élite: da una parte, infatti, la polemica sul “voto clandestino” caratterizza da tempo la politica americana ancor prima dell’afflusso incontrollato di immigrati verificatosi negli ultimi anni, sin da quando i democratici affermavano che chiedere un documento alle urne era una imposizione “razzista” perché si sa che gli afroamericani, oltre a essere sciatti e sbadati, non amano farsi identificare da qualsiasi autorità (e ne volevano parlare bene!).

Per non discutere delle mire destrorse su una certa fetta di elettorato (prevalentemente latino-americana) che è naturaliter conservatrice ma ha quell’unico problemino di non amare troppo la “regolarità” (in fondo, entrando illegalmente in America, il loro unico crimine è stato quello di aver violato la legge).

Penso che qui sia all’opera un paradosso “leghista”, ovvero che concedendo il voto agli immigrati regolari costoro correrebbero a votare “a tutta destra”: sia perché i penultimi odiano gli ultimi (dunque se io sono arrivato su un barcone non voglio che ne sbarchino altri per condividere la fetta di torta che ho ottenuto), sia perché la “cultura” da cui provengono gli immigrati non è propriamente la stessa della gauche caviar che li vuole far entrare tutti. Anche per questo le compagini “progressiste” prediligono una clandestinità intesa in senso assoluto, quasi ontologico, in modo da avere sempre a disposizione della gentucola da ricattare con un tozzo da pane per garantirsi agevolmente l’accesso al potere. Questa è l’unica chiave di lettura inellettualmente onesta dell’immigrazionismo.

6 thoughts on “La sostituzione etnica comincia dalle urne

  1. Nessuna delle parti in gioco, apparentemente, sembra tenere conto dei fattori “tempo” e “demografia”.
    Ossia, il tasso di crescita di queste comunità straniere che, una volta risoltasi la guerra interetnica che si svolge nel vaso Kodoku delle periferie, avrà tranquillamente tutti i numeri ed il potere per fare tranquillamente a meno dei contenitori partitici autoctoni. Nonché, avallati da una base di supporto e finanziamento estero facente capo a nazioni oramai apertamente concorrenti, del blocco BRICS.
    Si prospettano tempi di “double loyalty” tali, di intere comunità straniere, da fare invidia agli ebrei americani. E guardacaso, Erdogan ci ha visto lungo fomentando apertamente questo fenomeno in Germania. In vista dei futuri “partiti etnici”, non così facilmente disinnescabili come quello ipotetico che secondo voci di corridoio sarebbe stato nei progetti di Soumahoro, e che gli sarebbe costato la gogna e la caduta dalla gabbia dorata del favore PiDdino.

  2. Una domanda: considerando che il 5-10 della popolazione dei paesi occidentali è costituita da immigrati, e che il loro tasso di riproduzione è di norma ben più alto di quello degli altri gruppi, è probabile che anche se domani si chiudessero totalmente le frontiere (il che è ritenuto da tutti impossibile), nel giro di venti-trent’anni al massimo le popolazioni immigrate diventerebbero comunque politicamente determinanti. La domanda quindi è: ha senso porsi il problema delle frontiere?

      1. oniamoci allora anche il problema dell’espulsione degli immigrati.
        Anche di quelli di seconda /terza generazione?
        Anche dei figli di sempre più nmerose, coppie miste?!?

  3. fa fatica a credere che in quella che viene definita “la democrazia più importante al mondo” le elezioni nazionali assomiglino alle famigerate “primarie del PD” dove si vede regolarmente un assembramento (anche in tempi di pandemia!) di nordafricani, cinesi e zingari.
    Tra cui anche non pochi minorenni e/o ubriachi, che votano anche più volte .

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