Master: racconti dell’orrore per bambini bianchi

Master è una pellicola diretta dalla regista americana (di origini senegalesi e “orgogliosamente africana”) Mariama Diallo, distribuita da Amazon Studios nel marzo 2022. Si tratta di uno dei film più noiosi e ridicoli che abbia mai visto ultimamente: la vicenda tratta di tre donne afro-americane (una direttrice, un’insegnante e una studentessa) alle prese con il razzismo nell’università in forma di horror psicologico. Un horror che, ovviamente, non fa paura nemmeno per sbaglio (come afferma una recensione: There is not a single moment of fright or spookiness), a meno di non lasciarsi avvincere dall’idea che il “vero orrore” sarebbe il razzismo intrinseco a tutte le istituzioni “bianche”.

Nonostante la critica non l’abbia massacrato come avrebbe dovuto fare, c’è stata comunque una certa refrattarietà da parte di essa ad accoglierlo come “capolavoro assoluto“: l’insistenza sugli stereotipi dei “bianchi razzisti” è talmente esagerata che come minimo ci si sarebbe aspettati un finale a sorpresa. Invece nulla, il film era proprio questo: una storiella per spaventare i bambini, dove al posto dell’uomo nero c’è appunto l’uomo bianco.

Dal momento che ne sconsiglio la visione, mi piacerebbe “spoilerarvelo” in qualche modo, ma come dicevo non c’è alcun “colpo di scena”, se non il fatto che una delle tre protagoniste nere (l’insegnante) ha in realtà cercato di ottenere il posto di ruolo spacciandosi per nera pur provenendo, a quanto pare, da una bianchissima… famiglia Amish!

Vicende di questo genere sono molto comuni nell’ambito accademico statunitense, perché le razzistissime università americane offrono infiniti vantaggi a docenti e studenti provenienti da qualche “minoranza”. Dunque a una ragazzotta bianca qualsiasi basterebbe farsi qualche lampada e acconciarsi i capelli in stile “afro” per ottenere percorsi privilegiati, ovviamente impegnandosi a dire sempre la “cosa giusta” (l’ultimo caso è quello di Jessica Krug, professoressa specializzata in studi sulla diaspora africana che si spacciava per algerino-portoricana quando invece proveniva da una famiglia ebraica del Kansas).

In Master questo è in effetti l’unico momento vagamente “riflessivo” rispetto alla monolitica narrazione antibianca. Il problema è che anche come plot twist non ha alcun senso, perché lascia la trama sfilacciata e non consente neanche allo spettatore di “riannodare” alcunché: gli episodi restano tutti sganciati e nonostante la connessione più ovvia sarebbe quella di ricondurre il suicidio della studentessa nera perseguitata da minacce inquietanti (oltre che dal razzismo istituzionale ecc…) a una cinica manovra della sua insegnante “bianco-nera” per far carriera sfruttando il “sacrificio” di una povera ragazza di colore oppressa dalla bianchitudine, è il “messaggio” che interdice ogni katharsis.

Di solito un film che abbia la pretesa di essere “d’autore” dovrebbe almeno suscitare un qualche straniamento, perturbare lo spettatore anche con l’ambiguità: qui invece, dato che il messaggio anti-razzista deve imporsi su tutto, non si riesce mai ad uscire dal vicolo cieco del “colpevole sempre bianco”. Dunque l’unica conclusione (peraltro nemmeno troppo originale o così sorprendente) che avrebbe potuto conferire a una serie di scene sparse la qualifica di “film” è resa in sostanza inconcepibile.

Prima la strega bruciata che ha maledetto l’università, poi gli Amish che pericolosamente si “avvicinano alla città” (e cantano canzoni da “bianchi”, ecco l’orrore!), poi gli studenti “bianchi e ricchi” che non si capisce cosa stiano combinando nei boschi (sesso a tre? dispetti razzisti?), poi le croci bruciate nel campus, infine la morale del “il vero fantasma è quello del razzismo”. Ma basta!

Sapete qual è il vero orrore? Che la propaganda non riesca più a nascondere la sostanza con la forma. Da Amazon mi sarei aspettato l’opera più degenerata e irritante possibile, ma che almeno fosse esteticamente appagante. Penso a una pellicola con un “messaggio” simile, Scuola d’onore del 1992, dove al posto del razzismo contro i neri c’è l’antisemitismo. Forzato quanto si vuole, ma con un briciolo di verità nel descrivere i pregiudizi dei “bianchi anglosassoni protestanti” che almeno negli anni ’50 del secolo scorso (dove è ambientato) concorrevano a formare l’élite americana. Anche didascalico e “telefonato”, come si dice, ma comunque bello da vedere. Naturalmente regista e sceneggiatori erano tutti ebrei: se proprio si deve produrre della propaganda, allora la si lasci fare a chi ha qualche esperienza in merito, dico bene?

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