Scopro ora che non esiste una traduzione inglese di Supergiovane di Elio E Le Storie Tese: sarebbe facile cavarsela con una trasposizione letterale, tuttavia credo che senza alcun apparato critico e filologico il pezzo rischierebbe di generare numerosi equivoci. In particolare risulterebbe perturbante la comparsa improvvisa del Catoblepa, creatura leggendaria la cui presenza viene “ufficialmente” giustificata con la necessità di trovare una rima per le Tepa.
L’altra sera, meditando sulle opere del poeta Pasquale Panella, con la complicità di un virus intestinale che mi ha impedito di fare alcunché, al di là di struggermi sulla vacuità dell’esistenza, ho finalmente individuato, per l’avanguardia che egli vorrebbe rappresentare, una definizione incontestabile (ricordo che lo stesso Panella espresse indirettamente il desiderio di essere etichettato: «Mi dicono che sono orfico, ermetico, dadaista, ma storicamente non posso esserlo, se lo volessi dovrei andare a cena con Tzara. Mi chiamano così perché non hanno una parola di nuovo conio»).
Ecco, Panella è un preterintenzionalista. Lasciando da parte eventuali risvolti giuridici, ciò a cui mi riferisco è una sorta di surrealismo o dadaismo o ermetismo dal taglio umanistico, nel senso che nel realizzarsi pone al contempo la necessità di essere interpretato e compreso. A differenza dell’art pour l’art, il preterintenzionalismo ha dunque uno scopo: suscitare una richiesta di senso. Se non fosse così, non si spiegherebbe, giusto per rimanere sul “caso” Panella, la smania esegetica che pervade gli appassionati del secondo Battisti, i quali sono lungi dall’adattarsi a una lettura “estetizzante” di quei testi.
Tornando a Elio e le Storie Tese, non penso che il loro stile possa essere definito “preterintenzionalista”; tuttavia è difficile negare che la loro opera non si presti anche a una lettura di questo tipo. Per esempio, la figura del Catoblepa rimanda al neologismo creato da Raffaele Mattioli nel 1962, catoblepismo, per indicare il circolo vizioso tra politica e finanza. Considerando che il Supergiovane combatte, oltre i matusa, soprattutto il governo, la sua relazione col Catoblepa a questo punto risulta enigmatica: com’è possibile che uno dei “giovani” condivida, almeno nel nome, una delle caratteristiche tipiche del governo? Ci troveremmo di fronte a un mimetismo dai tratti aberranti…
Per sciogliere la contraddizione, riportiamo la pacifica definizione di “Catoblepa” contenuta nel Manuale di zoologia fantastica del Borges:
Plinio (VIII, 32) narra che ai confini dell’Etiopia, non lontano dalle fonti del Nilo, abita il catoblepa, “fiera di media statura e andatura pigra. La testa è di peso considerevole, e l’animale fa molta fatica a portarla; la tiene sempre chinata a terra. Se non fosse per questa circostanza, il catoblepa annienterebbe il genere umano, perché qualunque uomo gli vede gli occhi, cade morto”.
Catoblepas, in greco, vuol dire “che guarda in basso”. Cuvier stimò che fosse stato ispirato agli antichi dallo gnù (contaminato col basilisco e con le gorgoni). In una delle ultime pagine della Tentazione di Sant’Antonio si legge:
«Il catoblepa (bufalo nero, con una testa di maiale che gli ciondola fino a terra, attaccata com’è alle spalle mediante un collo sottile, lungo e floscio come un budello vuoto. Sta appiattato nel fango, le zampe appena visibili sotto la gran criniera di peli duri che gli copre il muso):
– Grosso, melanconico , fosco, me ne sto sempre così: a sentire sotto il ventre il tepore del fango. Ho la testa così pesante che m’è impossibile tenerla alzata. La muovo lentamente attorno, e, a mascelle socchiuse, strappo con la lingua le erbe velenose inumidite dal mio fiato. Una volta, mi sono divorato le zampe senza accorgermene.
– Nessuno, Antonio, m’ha visto mai gli occhi; o chi li ha visti è morto. Se alzassi le palpebre, queste mie palpebre rosate e gonfie, tu moriresti all’istante».
Ora, la questione del “preterintenzionalismo” difficilmente può essere evitata quando ci si imbatte in un catoblepa mentre si ascolta una canzone in una lingua che non conosciamo. Ricordo, per esempio, un pezzo che si impose come ascolto obbligato agli albori dei nostri studi di polonistica, Euforia di Pawbeats (con Quebonafide e Kasia Grzesiek): nel susseguirsi frenetico e soverchiante di rime, a un certo punto fece capolino l’Uroboro, la cui presenza allietò i giovani giorni in cui non si masticava una parola di polacco, quasi come una docile bestiola pronto ad accoglierci sulla porta di casa.
…Blizny nie bolą, życie to uroboros, tu początek jest końcem…
«Le cicatrici non fanno male, la vita è un uroboro, dove l’inizio è la fine»
Il testo (qui una traduzione in inglese), nel quale sostanzialmente si discute di amore e droga, cioè amore e morte (connubio abusato, sul quale non val la pena spendere una parola), contiene tuttavia riferimenti complessi, tra il colto e il popolare, che per chi è alieno alla contemporaneità probabilmente sfuggirebbero anche nella propria lingua.
Per riprenderci ancora una volta dall’ennesimo scacco euristico, torniamo al Manuale di zoologia fantastica del Borges (voce “Uroboros”):
Adesso l’Oceano è un mare o un sistema di mari; per i greci, era un fiume circolare che contornava la terra. Tutte le acque fluivano da esso, ed esso non aveva foce né fonti. Era anche un dio o un titano, forse il più antico, perché il Sonno, nel libro XIV dell’Iliade, lo chiama origine degli dèi; nella Teogonia di Esiodo è il padre di tutti i fiumi del mondo, che sono tremila, e la cui lista s’apre con l’Alfeo e col Nilo. Un veglio dalla barba copiosa era la sua personificazione abituale; dopo secoli, l’umanità trovò un simbolo migliore.
Eraclito aveva detto che nella circonferenza il principio e la fine sono un solo punto. Un amuleto greco del secolo III, conservato nel Museo Britannico, ci dà l’immagine che meglio può illustrare questa infinitezza: il serpente che si morde la coda, o, come dirà acconciamente Martinez Estrada, “che comincia alla fine della coda”. Uroboros («che si divora la coda») è il nome tecnico di questo mostro, di cui poi gli alchimisti fecero spreco.
La sua comparsa più famosa si ha nella cosmogonia scandinava. Dall’Eddain prosa, o Edda Minore, risulta che Loki generò un lupo e un serpente. Un oracolo avvertì gli dèi che queste creature sarebbero state la perdizione della terra. Il lupo, Fenrir, fu messo a una catena forgiata con sei cose immaginarie: il rumore del passo del gatto, la barba della donna, la radice della roccia, i tendini dell’orso, l’alito del pesce e la saliva dell’uccello. Il serpente, Jörmungandr, “fu gettato nel mare che circonda la terra; e nel mare è talmente cresciuto, che adesso anche lui circonda la terra, e si morde la coda”.
Nello Jötunheim, o dimora dei giganti, Utgarda-Loki sfida il dio Thor a sollevare un gatto; il dio, impiegando tutta la sua forza, appena riesce a sollevargli di poco una zampa; il gatto è il serpente. Thor è stato ingannato con arti magiche.
Quando giungerà il Crepuscolo degli Dèi, il serpente divorerà la terra, e il lupo il sole.
Affrontiamo infine la fiera più estrema della nostra serie, la Manticora. Ci introduce al suo cospetto Ile mogłem [“Quanto potrei”], il capolavoro di Quebonafide (con K-Leah): lo stesso bardo che pochi mesi prima aveva invocato l’Uroboro, ora pone la fatale sfinge a guardia di un tour de force linguistico e semantico, questo sì intraducibile nei suoi arcani rimandi a una quotidianità polacca sfortunatamente poco accessibile.
Dopo l’attacco “In questo business faccio la parte del leone, Manticora…” ecco che incrociamo una “giacca Burberry su misura” [marynarę Burberry na miarę], un profumo Herrera [zapach Herrery], un “orologio Beurer” [Zegarek od Beurera], che sarebbe un sensore di attività elettronico (cioè un cardiofrequenzimetro per il fitness) e altre cose leggere e vaganti che non siamo in grado di afferrare…
(A partire da 1:40; si consiglia la visione integrale del video, girato tra Malta e Berlino):
…Ten biznes ma moją lwią część; mantykora
Skojarz, od zawsze postęp to logos
Od za małej bluzy z za dużym logo
Po luksusową marynarę Burberry na miarę, zapach Herrery
Zegarek od Beurera, bangery od Raya i Cher i cheri lady…
Anche qui, per recuperare la serenità e tornare a una dimensione a noi più consona, chiamiamo in causa Borges per l’ultima volta (voce “Manticora”):
Plinio riferisce che secondo Ctesia, medico greco di Artaserse Mnemone, “c’è in Etiopia un animale chiamato manticora, il quale ha tre ordini di denti connessi come quelli d’un pettine, faccia e orecchie d’uomo, occhi azzurri, corpo cremisi di leone, e coda terminante in aculeo come di scorpione. Corre con una somma rapidità ed è amantissimo della carne umana; la sua voce è come un concerto di flauto e tromba”.
Falubert ha migliorato questa descrizione. Nelle ultime pagine della Tentazione di sant’Antonio si legge:
«La manticora (gigantesco leone rosso, dal volto umano, con tre filari di denti):
– I marezzi del mio pelame scarlatto si confondono col riverbero delle grandi sabbie. Soffio dalle narici lo spavento delle solitudini. Sputo la peste. Mangio gli eserciti, quando s’avventurano nel deserto.
– Ho le unghie ritorte a succhiello, i denti tagliati a sega; e la mia coda roteante è irta di dardi che lancio a destra, a sinistra, in avanti, in dietro. Guarda! Guarda!
(la manticora lancia le spine della coda, che si irradiano come frecce in tutte le direzioni. Gocce di sangue piovono schioccando sul fogliame)».
Così si conclude questa retrospettiva sulla necessità non tanto di tradurre, quanto di interpretare e, se è possibile, comprendere: come sempre, a giungerci in soccorso, oltre a ecolalie, pareidolie e glossolalie, i cari vecchi archetipi che accompagnano da millenni la nostra avventura umana.