I nuovi pilastri della globalizzazione: pandemia, quarantena ed estinzione

Il fattore che distingue l’epidemia da coronavirus del 2002 dalla pandemia del 2019 è fondamentalmente la globalizzazione: ma affinché tutti si accorgessero della natura “innaturale”, cioè niente affatto tecnica e neutrale, del fenomeno, c’è voluta la solita crisi. Ha ragione dunque persino un gaffeur come Walter Ricciardi (uno dei tanti “consulenti” dell’attuale ministro della Sanità) ad annunciare l’inizio di una Era delle Pandemie:

“Siamo entrati in un periodo storico in cui questi virus e queste pandemie saranno sempre più frequenti. Con questo coronavirus ci è andata anche bene, perché ha una bassa letalità. Se con il prossimo virus quest’ultima dovesse essere più alta, i risultati sarebbero disastrosi”.

Sfortunatamente poi l’esperto ministeriale la butta sull’ambientalismo, ignorando la dimensione politica del problema: “La salute dell’uomo è strettamente intrecciata a quella del pianeta. Se non curiamo contemporaneamente le condizioni di acqua, aria, clima e alimentazione, questo risponderà portandoci a una estinzione”.

In verità anche questa conclusione, all’apparenza così scontata, non ha nulla di tecnico: per fare solo un esempio, “curare le condizioni” dell’alimentazione implicherebbe tra le altre cose imporre alla Cina una costante sorveglianza internazionale sulle condizioni igieniche dei famigerati “mercati umidi” e conseguenti sanzioni nel caso di mancato adempimento. Chi dovrebbe occuparsi di tutto ciò: l’OMS, l’ONU, la NATO, gli Stati Uniti, l’Unione Europea, la Cina stessa, l’India…?

Tuttavia, al di là di queste “quisquilie” sulla breve distanza, la vera aporia che contraddistingue la globalizzazione è questa: il mercato mondiale libero e aperto impone l’impossibilità di venir meno al laissez faire anche nel caso di pandemie. Ecco perché ora si fa un gran parlare di Great Reset, della necessità di superare le mitologie politiche global attraverso un nuovo paradigma che dovrebbe portare a una sorta di Stato Sociale universale.

Dove però hanno fallito il dumping fiscale e salariale, la disoccupazione, l’immigrazione selvaggia e il terrorismo, hanno trionfato gli starnuti: a livello simbolico è stato il virus a rappresentare la vera crisi di questo sistema. Ciò che sembrava il destino manifesto dell’umanità si è rivelato il solito castello di carte: ma a meno che qualcuno non si prenda la responsabilità politica di superare la globalizzazione, nei prossimi anni o decenni assisteremmo a una sua degenerazione modellata dalle prossime influenze “internazionali”.

Al mondo esistono quasi un milione di microrganismi pronti al cosiddetto “salto di specie” che turba le fantasie dei virologi. A lanciare il nuovo allarme sono gli scienziati dell’Ipbes (Intergovernmental Science-Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem), uno dei tanti organismi delle Nazioni Unite: nei mammiferi e negli uccelli risiedono oltre 1,7 milioni di virus ignoti, la metà dei quali pronto appunto allo spillover.

Gli esperti ONU, dalla loro prospettiva umanitaria, mondialista e politicamente corretta, lamentano tra le cause principali la deforestazione, l’inurbamento e il cambiamento climatico. Certamente questi fattori contribuiscono a mettere in contatto pipistrelli e maiali e a dare il via alle famigerate zoonosi, ma la natura non è soltanto “arcobaleno” e come ammette lo stesso David Quammen, all’origine delle pandemie ci sono anche i viaggi low-cost, i menù esotici e il libertinismo di massa.

È proprio l’Autore del bestseller Spillover a tracciare un legame tra l’aumento esponenziale della prostituzione a Brazzaville, in seguito alla colonizzazione e conseguente inurbamento, e la creazione dell’humus adatto all’AIDS. Probabilmente in un secolo diverso, dove la morale sessuale cattolica aveva ancora il suo peso, una pandemia del genere non si sarebbe mai sviluppata, o comunque sarebbe rimasta confinata ai “margini dell’Impero” e non avrebbe viaggiato per continenti grazie a uno steward franco-canadese (come vuole la leggenda del Paziente Zero).

Ciò significa che il fattore di crisi di un modello impone la sua accettazione completa: non si potrà dunque in alcun modo bilanciare libertà di spostamento, di accoppiamento e di commercio con “restrizioni” di stampo non solo sanitario ma anche politico o addirittura etico. Persino la globalizzazione pretende il suo Fiat iustitia et pereat mundus: se il prezzo per il multiculturalismo gastronomico, il meticciato universale e la “sessualizzazione” di tutto l’esistente (che sottintende feticismo e zoofilia, pratiche altamente contaminanti dal punto di vista pandemico e zoonotico) è l’estinzione dell’umanità per qualche super-peste, i globalisti devono essere disposti a pagarlo per coerenza.

Altrimenti tanto varrebbe ammettere che il “mondialismo” non funziona, o comunque non è in grado di reggere nemmeno alla febbre, e provare a recuperare qualche modello cacciato troppo frettolosamente in cantina. Ma ciò è improbabile che accade, poiché, nonostante la dialettica nazionalisti/globalisti sia perlopiù un orpello della propaganda trumpiana, è un dato di fatto che le classi politiche di diverse nazioni, non solo occidentali, abbiano costruito la proprio fortuna sul mito del “villaggio globale”.

Se per esse risultava però già complicato imporre un’etica della responsabilità tutta orientata all’ecologismo contro la soverchiante “libertà di circolazione” imposta a persone, merci e persone mercificate (come se un “gretino” abbia mai rinunciato a un viaggio Ryanair per “salvare gli orsi polari”), non si illudano le élite di ottenere la quadratura del cerchio attraverso la medicalizzazione universale.

Perché non si potrà, in parole povere, continuare a raccontare la favola del “villaggio globale” impedendo al contempo, per ragioni squisitamente sanitarie, di poter spendere i propri esigui stipendi in inutili voli da 9,99 euro. Prima o poi l’autoproclamato “cittadino del mondo” che non può nemmeno mettere il naso fuori di casa comincerà ad adottare, volente o nolente, una prospettiva “isolazionista” anche in campo economico, sociale e politico. E alla dittatura dei camici bianchi subentrerà infine qualche autoritarismo meno candido e neutrale.

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