Dopo aver sprecato il 2022 guardando film horror, ci riproviamo col 2023. Senza alcuna speranza, perché l’orrore (estetico) continua.
Based on true events. Ma anche no. Commedia nera ambientata nelle foreste della Georgia nel 1985 (gli anni ’80 sono diventati negli ultimi dieci anni una delle ambientazione elettive per gli horror) che romanza la triste vicenda di un orso nero morto di overdose per aver ingerito chili di cocaina lanciata da un narcotrafficante dal suo Cessna sovraccarico per non precipitare. La sceneggiatura non è malvagia, poiché si sforza di dare a una vicenda piuttosto banale (un bestione strafatto che ammazza chiunque gli capiti a tiro) uno scenario storico credibile, dalla raffigurazione del sottobosco criminale “bianco” (la mafia bluegrass, i trafficanti degli Appalachi) al leitmotiv della “guerra contro la droga” portata avanti dai repubblicani senza soluzione di continuità da Nixon a Reagan (e non dispiace che il messaggio non sia totalmente libertario e fottutamente hippie). Tuttavia la deriva fumettistica della maggior parte delle scene in cui compare il Cocainorso (che sniffa sugli arti mozzati o si accanisce sullo zoologo “buonista”) lo rendono una produzione ingenua che a tratti muove al riso. Per questo motivo spiace che il film rappresenti il canto del cigno del grande Ray Liotta (che ha comunque regalato un’interpretazione eccelsa, nonostante l’inevitabile imbolsimento). Lo consiglierei a coloro i quali si ritengono appassionati degli “anni ’80”, poiché corrisponde esattamente alla loro visione di un’epoca felice e spensierata turbata solo da crimini tutto sommato innocui, come un orso che divora dei panetti di coca.
Stranissima pellicola ambientata nella comunità ebraica newyorchese, riprende un tema del folklore tradizionale giudaico, quello di Abizou, la “ladra di bambini”, demone (dibbuk) che causa aborti e infertilità per invidia. Assieme a The Vigil, Clock e altri titoli, rappresenta l’ennesima incursione (per giunta a opera di un goy britannico, tale Oliver Park) in un mondo che solitamente Hollywood è interessata, per diversi motivi, a tener lontano dai riflettori. Lasciando perdere la trama, che al pari di quella degli horror degli ultimi decenni non ha alcun senso (il marito, proveniente dall’ebraismo chassidico, dovrebbe suicidarsi per imprigionare il demone…), è importante considerare la raffigurazione spregiudicata che viene proposta dell’ambiente ebraico ortodosso: un mondo oppressivo regolato da assurde prescrizioni, dove il razzismo regna sovrano (le ragazze gentili, specialmente se di bell’aspetto, vengono chiamate shiksa, in yiddish “abominevoli”, “impure”, “disgustose”) e le superstizioni sono la vera componente “religiosa” della comunità. Non a caso sono già fioccate le accuse di antisemitismo, anche se, proprio per evitare le fruste dicerie sul “controllo” del cinema americano da parte degli ebrei, sembra venuto anche per quest’ultimi il momento di ingurgitare la proverbiale tonnellata e mezza di merda.
Tin & Tina è un horror/thriller psicologico diretto da Rubin Stein (che nome sarebbe?) e distribuito da Netflix che più si avvicina, almeno per quest’anno, all’identificazione con la “cagata pazzesca” di fantozziana memoria. Ambientato, inspiegabilmente, nella Spagna del 1981, è la storia di Rod & Tod, cioè volevo dire Tin & Tina, due gemelli albini che un monastero decide di appioppare a Lola (lol) e Adolfo (lol), coppia di sfigati che naturalmente farà una brutta fine. Nel frattempo ci si dimentica di essere in Spagna se non per il nuvolone di cattolicesimo opprimente che sorvola la trama (se fosse stato ambientato negli USA ci sarebbero stati redneck, mormoni o “visi pallidi” assortiti a rappresentare il male oscuro) e per l’apparizione in tv di Germania Ovest-Spagna del mitico Mundial del 1982. Uno sprazzo di luce in un polpettone grottesco che si fatica a seguire fino in fondo. Per parafrasare il Poeta, “Guardate la merda che siete”.
Ho recensito L’Esorcista del Papa qui. Pessimo film, ma non il peggiore dell’anno. Guai però a guardarlo da una prospettiva cattolica.
Ho recensito Clock qui. È la summa di cinquant’anni di horror anti-maternità. L’ambientazione ebraica lo rende decisamente sui generis, non a caso l’ho evocato parlando di The Offering. Ma non lo consiglierei in senso non-ironico: è un pessimo film, triste al pari di qualsiasi altra opera di propaganda prodotta dal dopoguerra in avanti.