Scrive Jason Douglas sul Wall Street Journal (The World Is in for Another China Shock, 2 marzo 2024) che la Cina si prepara a immettere una nuova ondata di prodotti a basso costo sui mercati internazionali, allo scopo di replicare quello “shock cinese” verificatosi tra la fine degli anni ’90 e l’inizio degli anni 2000, che sulla lunga distanza ha danneggiato enormemente il tessuto produttivo dei principali Paesi occidentali.
Pechino sta infatti raddoppiando le esportazioni per rilanciare la propria crescita: le fabbriche cinesi producono più automobili, macchinari ed elettronica di consumo di quanto il mercato nazionale possa assorbire e così le aziende cinesi, sostenute dallo Stato, stanno saturando i mercati esteri con prodotti che non riescono a vendere in patria.
I tempi tuttavia sono cambiati, perché come chiunque può intuire l’economia cinese è completamente diversa da quella di oltre vent’anni fa: secondo i dati della Banca Mondiale, nel 2022 essa ha rappresentato il 31% della produzione manifatturiera globale e il 14% di tutte le esportazioni di beni, mentre due decenni prima la quota cinese del settore manifatturiero era inferiore al 10% e delle esportazioni inferiore al 5%.
Inoltre, sta cambiando anche la mentalità occidentale (ma forse è troppo tardi?): negli Stati Uniti e in altri Paesi sta maturando un approccio “protezionistico”, incentivato per giunta dalle tensioni geopolitiche. La combinazione di questi fattori potrebbe portare a un’economia mondiale sommersa di beni che nessuno può comprare per mancanza di potere d’acquisto: il copione classico per la deflazione.
Gli Stati Uniti, l’Europa e il Giappone non vogliono che si ripeta la situazione dei primi anni 2000, quando le merci cinesi a buon mercato fecero fallire molte delle loro imprese. Per questo motivo hanno stanziato miliardi di dollari a sostegno delle industrie ritenute strategiche e hanno imposto dazi sulle importazioni cinesi. L’invecchiamento della popolazione e la persistente carenza di manodopera nel mondo sviluppato potrebbero ulteriormente compensare alcune pressioni disinflazionistiche esercitate questa volta dalla Cina.
Il primo “shock cinese” si è verificato dopo una serie di liberalizzazioni adottate negli anni ’90 e l’adesione del Paese all’Organizzazione Mondiale del Commercio nel 2001. Per i consumatori statunitensi, ciò ha comportato indubbiamente dei vantaggi: uno studio del 2019 ha rilevato che i prezzi al consumo dei beni negli Stati Uniti sono scesi del 2% per ogni punto percentuale in più di quota di mercato conquistata dalle importazioni cinesi.
A tale vantaggio è però corrisposto lo svantaggio di danneggiare i produttori nazionali. Nel 2016, David Autor, professore di economia al Massachusetts Institute of Technology, ha stimato che gli USA abbiano perso più di due milioni di posti di lavoro tra il 1999 e il 2011 a causa delle importazioni cinesi, in particolare in settori come l’arredamento, la produzione di giocattoli e l’abbigliamento.
L’economia cinese è cresciuta del 5,2% lo scorso anno, un tasso contenuto per i suoi standard, e si prevede che rallenterà ulteriormente a causa della prolungata crisi immobiliare. Alcuni analisti ritengono che la crescita annuale calerà al 2% entro il 2030. Pechino insegue dunque una ripresa con massicci investimenti pubblici nei settori dei semiconduttori e in quelli aerospaziale, automobilistico e delle energie rinnovabili, con l’intenzione di esportare tutto ciò che non può vendere all’interno nei propri confini.
La debolezza della domanda e l’eccesso di capacità produttiva influiscono però sull’impulso disinflazionistico, che si sta manifestando in tutto il mondo. Il prezzo delle importazioni statunitensi dalla Cina è sceso del 2,9% a gennaio rispetto all’anno precedente, mentre il prezzo delle importazioni dall’Unione Europea, dal Giappone e dal Messico è aumentato.
A differenza dei primi anni 2000, il mondo occidentale ora vede la Cina come rivale economico e avversario geopolitico. L’Unione Europea sta valutando se i veicoli elettrici prodotti in Cina violino le regole sugli aiuti di Stato e debbano essere soggetti a restrizioni, mentre l’ex presidente americano Donald Trump ha ventilato l’idea di colpire le importazioni dalla Cina con dazi del 60%.
Tale nuovo corso protezionistico potrebbe spostare parte dell’impatto deflazionistico su altre parti del mondo, poiché gli esportatori cinesi sono anche alla ricerca di nuovi mercati nei Paesi più poveri, le cui economie nascenti potrebbero morire in fasce di fronte alla concorrenza cinese.
A differenza di Giappone e Corea del Sud, che hanno abbandonato la produzione a basso costo per dedicarsi ad esportazioni di valore più elevato, la Cina ha mantenuto una posizione dominante nei settori a basso costo pur volendo convertirsi verso produzioni tipiche delle economie avanzate, rappresentando “una sfida mercantilista senza precedenti”, come l’ha definita Rory Green, esperto presso GlobalData–TS Lombard.
Tot, ci fai un articolo sulla Trappola di Tucidide?