Finalmente abbiamo la prova che la Turchia finanzia l’Isis: la casa editrice turca, che prende il nome dalla dea Iside e pubblica anche volumi in italiano (collana “Quaderni del Bosforo”) ha infatti sede a Istanbul ed è difficile immaginare che non usufruisca di finanziamenti da parte di qualche turco. Se questa non è una prova che la Turchia (o addirittura l’Impero Ottomano) sostiene l’Isis, allora non credo possano essercene altre.
Ah già, stavate cercando il solito pezzo anti-turco: beh, ma per quello non basta leggere un giornale qualsiasi? Ormai viene dato per scontato che dietro al sedicente “Stato Islamico” ci siano Erdoğan e suo figlio che distribuiscono lingotti d’oro (trattandosi di un assioma, le prove non servono). Questo modo di porsi nei confronti della Turchia è un sintomo dell’inguaribile provincialismo della nostra classe intellettuale (nonché un’estensione del tipico Selbsthass italiota).
Non è tuttavia solo questione di indole nazionale, ma anche di circunstancia: la Turchia è diventata il capro espiatorio perfetto su cui scaricare le colpe di ciò che chiamiamo “Occidente”. Proviamo quindi a comprendere come è potuta nascere la “leggenda nera” attorno a uno dei nostri più preziosi alleati.
Prima di tutto, bisogna mettere in conto il risveglio della Russia non solo come potenza politica e militare, ma anche e soprattutto mediatica. La pensata di lanciare un canale anglofono come Russia Today è stata sicuramente azzeccata, anche perché pochissimi russofili, nonostante lo zelo, sembrano intenzionati a imparare almeno qualche parola dell’idioma di Puškin (questo, tra parentesi, è uno dei motivi per cui si tende sempre più a mitizzare tutto ciò che accade a Mosca). Inoltre una classe politica uscita dal KGB all’occorrenza trova ancora vantaggioso rispolverare la cara vecchia disinformatsija: lo attestano le prove ridicole con cui si è tentato di collegare la famiglia Erdoğan ai “tagliagole” dell’Isis. Quella più eclatante(in tutti i sensi) è stata una foto del figlio del presidente turco, Bilal, con due kebabbari, i fratelli Kember, spacciati dal Cremlino per miliziani del califfato (i primi ad abboccare sono stati ovviamente quelli di “Libero”).
Oltre all’apparato mediatico, la Russia in questi anni ha anche dispiegato una sua versione di soft power: come scrive “Le Monde” (15 febbraio) a proposito della provincia di Hatay, una zona contesta tra Turchia e Siria, «Damasco e Mosca non avrebbero alcun problema a destabilizzare Hatay, già sommersa da rifugiati e combattenti in fuga. Trasformare la regione in un nuovo Donbass è alla portata di Mosca che eccelle nella creazione di “buchi neri”, quelle zone di non-diritto comparse in Ucraina, in Georgia (Abkhazia, Ossezia del Sud) e in Moldavia (Transnistria)».
Questo è il fattore aggiunto che ha consentito a Mosca di recuperare posizioni. In fondo la situazione della Siria odierna non differisce di molto da quella della Jugoslavia negli anni ’90: si tratta di una “guerra per procura” dove ogni potenza appoggia una fazione etnica o religiosa. Tuttavia ai tempi dell’intervento NATO nei Balcani i serbi non riuscirono a convincere gli aggressori che l’esercito bosniaco (appoggiato dai turchi) fosse composto da jihadisti provenienti da decine di Paesi.
Entrambi i Clinton (marito e moglie), del resto, rivendicano ancora di aver impedito la nascita di un califfato nei Balcani grazie all’operazione Deliberate Force: questa è, mutatis mutandis, la stessa dottrina che Obama ha tentato di seguire su pressione del proprio Segretario di Stato (la signora Clinton, appunto). Quando l’iniziativa si è dimostrata essere quel che era, cioè una risposta vecchia a un problema nuovo, gli strateghi hanno giustamente scaricato la responsabilità sul più malinconico dei Nobel per la Pace.
Al di là delle beghe condominiali alla Casa Bianca, l’andamento del conflitto dovrebbe tuttavia far intuire chi tra i contendenti ha tratto reale vantaggio dalla cannibalizzazione dell’opposizione perpetrata dall’Isis: è falso sostenere che la Turchia abbia in qualche modo beneficiato dell’estensione del sedicente califfato, anche in nome di corbellerie quali la “rivalsa sunnita” o il “neo-ottomanesimo” inventate a scopo propagandistico.
Ripensando alla sorte dello stesso Milošević, ma anche di Saddam o Gheddafi, tornano alla mente le parole con cui don Abbondio ricordava Perpetua: «Ha proprio fatto uno sproposito a morire ora; ché questo era il momento che trovava l’avventore anche lei». Purtroppo i tempi non erano ancora maturi affinché anche questi rivoluzionari imbiancati trovassero il loro avventore, cioè uno spauracchio grazie al quale presentarsi come baluardi della pace, della laicità, del diritto, della libertà eccetera. Solamente Assad è riuscito, “miracolosamente” (si fa per dire – anche se bisogna dargli atto di una certa resilienza), a sopravvivere al crollo ignominioso del socialismo arabo, logorato e distrutto dalla pretesa di vecchi ufficiali golpisti di assurgere al ruolo di paladini del legittimismo (chi di spada ferisce…).
Il secondo motivo per cui la Turchia di Erdoğan è stata trasformata a livello mediatico in uno “Stato canaglia” è l’inadeguatezza delle istituzioni europee nella gestione del fenomeno migratorio. Anche qui, il parallelo con le guerre balcaniche è lampante (ma sempre ingannevole): la Germania riuscì a procurarsi manodopera qualificata a basso costo approfittando dei conflitti scoppiati nella ex-Jugoslavia; molti di quei profughi, pur essendo mussulmani, erano dal punto di vista culturale (e anche etnico) del tutto europei. Tuttavia oggi anche i tedeschi hanno preferito adottare soluzioni anacronistiche: se per tutto il 2015 i loro media hanno alimentato le speranze dei migranti siriani, anche con toni smaccatamente propagandistici (come l’accoglienza con applausi alla stazione), alla fine la doccia fredda di Colonia ha imposto un ridimensionamento delle pretese (molto più prosaiche dell’umanitarismo a buon mercato distribuito a piene mani: la Merkel voleva in un colpo solo risolvere la crisi demografica continuando la guerra al ribasso sui salari).
Non è quindi colpa della Turchia se a un certo punto centinaia di migliaia di profughi hanno deciso di muoversi verso l’Eldorado che è stato loro promesso; è falso dire che Ankara non abbia tentato di assorbire e gestire questa enorme massa umana; per fonte diretta so che molti siriani sono stati assunti dallo Stato come insegnanti o infermieri, ma chi tra di loro è appena più qualificato degli altri non ha potuto resistere alla tentazione di spostarsi nella “generosissima” Europa del Nord.
Affermare che la Turchia stia “ricattando” l’Unione Europea è pertanto un modo particolarmente vile per scaricarsi la coscienza: soprattutto noi italiani siamo gli ultimi a poter dare lezioni, visto come abbiamo deliberatamente sabotato qualsiasi tentativo di salvaguardare la frontiera meridionale dell’Unione a cui apparteniamo, pretendendo pure in cambio di ottenere solidarietà da chi ha lottato con tutti i mezzi disponibili per difendere quei confini (polacchi e ungheresi, tanto per citare).
L’immigrazione pone inoltre il problema dell’integrazione, al quale è poi collegato quello dei foreign fighters: anche in questo caso, la Turchia viene incolpata di “lasciar passare” combattenti stranieri dirottandoli verso il sedicente Stato Islamico (sempre per la storia che l’Isis è bello, sunnita, ottomano ecc…). Ora, è da anni che invece le autorità di Ankara respingono al mittente migliaia di cittadini inglesi, francesi, belgi, tedeschi, olandesi (la lista è lunga…) perché sospettati di voler andare a combattere in Siria. Il problema è che, una volta rimpatriati, gli aspiranti kamikaze vengono spesso rilasciati per i motivi più disparati: alcuni servono da “esca” per rastrellare altri terroristi; altri invece vengono riciclati come spie o confidenti; ma una buona parte (è imbarazzante ammetterlo) viene lasciata libera di vagare per mezza Europa per senso di colpa, buonismo, vigliaccheria e tante altre meschine ragioni legate agli irrisolti problemi dell’integrazione e della gestione dell’ordine pubblico.
Vi sono poi molti altri motivi meno evidenti e più ambigui per cui la Turchia è finita sul banco degli imputati: uno di questi è la “curdomania” scoppiata nella galassia della sinistra radicale (cioè radical chic) che va di pari passo a un’implicita rivalutazione di quella che fino a poco tempo fa veniva chiamata “l’entità sionista”, da sempre promotrice della nascita di un Kurdistan a sua immagine e somiglianza (etnocentrico e guerrafondaio, quindi, ma anche molto attento al maquillage). In pratica i curdi sono diventati i nuovi palestinesi (mentre quelli “vecchi” sono stati dimenticati, forse relegati nelle tenebre del wahhabismo accanto all’Arabia Saudita o allo stesso Isis), e la Turchia è diventata la cattivona di turno (è bastato sostituire nei volantini “sionismo” con “ottomanesimo” o roba del genere).
Questa tendenza è osservabile non solo a livello collettivo, ma anche personale: quanti conoscenti che fino a poco tempo fa parlavano di Israele con la bava alla bocca oggi sono così attenti nel fare dei distinguo (alcuni addirittura si esaltano apertamente all’idea di uno Stato ebraico fantasmagoricamente anti-americano e filo-russo)? Ciò che più mi sconcerta è la necessità di avere sempre qualche nemico immaginario da odiare, previa ovviamente la riduzione dei conflitti internazionali al livello di una striscia di fumetti o di un film d’azione hollywoodiano (l’importante è che la distinzione tra buoni e cattivi sia la più netta ed elementare possibile).
Dulcis in fundo, il motivo principale per cui siamo diventati tutti turcofobi è la paura tremenda di dover combattere. Questa Europa si compiace di essere un’isola felice in un mondo violento e insensibile, ma finge di ignorare che tale singolare evenienza ha potuto verificarsi solamente grazie agli americani. Una volta che gli interessi degli Stati Uniti d’America dovessero divergere da quelli dei fantomatici Stati Uniti d’Europa, sarà difficile evitare lo scontro mettendosi a piangere, organizzando girotondi o creando hashtag accattivanti. Perciò abbiamo bisogno di ripeterci che la Turchia vuole trascinarci in guerra. Invece, ancora una volta, è esattamente il contrario: è solo grazie a questa patria immensa, l’ultima garanzia di stabilità in una delle regioni più lacerate e incandescenti del pianeta, che forse noi “europei” possiamo ancora godere di una prolungata pace.
Volendo essere il più realista possibile, mi domando da italiano come si porrebbero i miei connazionali nei confronti di un alleato infinitamente più esigente della Turchia quale è la Russia. Del resto, sempre parlando da italiano (o italiota?), continua a sfuggirmi la natura del dilemma “NATO o non NATO” col quale ci struggiamo da decenni: non vogliamo accettare il Patto Atlantico perché ci costringe a fare la guerra, ma al contempo ci rifiutiamo di abbandonarlo perché ciò potrebbe costringerci a fare la guerra. Oltre a ciò, continuiamo a biasimare quei Paesi che, per un motivo o per l’altro, prendono sul serio il loro ruolo nell’Alleanza o perlomeno esigono che venga rispettato il principio del pacta sunt servanda; mentre noi non abbiamo ancora deciso cosa fare da grandi: non è un caso che poi i nostri figli migliori vogliano diventare giannizzeri.