«Il colpo basso che ti ha dato Tina [Pizzardo, la prima donna amata, che si è sposata con un altro mentre lui era al confino] lo porti sempre nel sangue. Hai fatto tutto per incassarlo, l’hai perfino scordato, ma non serve scappare. Lo sai che sei solo? Lo sai che non sei nulla? Lo sai che ti lascia per questo? Serve a qualcosa parlare? Serve a qualcosa dirlo? Hai veduto, non serve a niente. Perché s’interessa di un tisico? Per la fica la fica la fica – oh Pavese» (7 dicembre 1945).
Questa estate rileggendo il Mestiere di vivere mi sono accorto che la copia in mio possesso è talmente infarcita di note jesiane da risultarne quasi sfigurata: l’interpretazione del pensatore torinese mi ha influenzato pesantemente, anche nel momento stesso in cui ho cercato di confutarla mantenendomi sul suo stesso livello (quello della religio mortis). Però col passare degli anni (soprattutto dei miei anni), mi accorgo che al di là di tutte le speculazioni letterarie, storico-culturali, magiche ed etnologiche, la conclusione non può che essere una sola: Cesare Pavese non è morto per chissà quale patto, sortilegio o sacrificio; è morto di fica, punto e basta.
In realtà si tratta di una intuizione alla quale ero già pervenuto due anni fa (proprio il 24 agosto, perché per me questo è sempre un mese pavesiano), ma che non avevo ancora sviluppato col cinismo e la frustrazione donatami dai miei trent’anni. Furio Jesi equivoca alla grande sulla “legge morale ineluttabile” che avrebbe portato lo scrittore al “sacrificio”: non solo per il fatto che, interpretando Pavese con le lenti del proprio eclettismo, lo riduce a uno di quegli autori di destra che amava tanto vivisezionare (a volte maciullare), obliando in toto il piccolo dettaglio che il Nostro, tanto per dire, morì comunista (i “taccuini nazisti” e tutto il resto rientrano nei “pettegolezzi” dell’ultima nota).
C’è dell’altro: il continuo richiamo alla necessità di “ridurre il mito a materia contemplativa” non ha nulla a che fare col tenebroso compendio di germanistica che Jesi propina allo spaesato lettore. Se del resto Pavese si fosse davvero ucciso per “accedere al mito” attraverso la morte (appunto “depositaria di miti”), allora la sua figura avrebbe raggiunto la statura iconica e pop di un Pasolini (che per inciso è “famoso” a discapito della sua immagine, ché i suoi surreali ruoli di caratterista sono altamente snobbati, forse per una disdicevole somiglianza cinematografica con Massimo Troisi o Massimo Ranieri); al contrario, il Poeta delle Langhe (bella formula con cui lo si congeda sempre) è totalmente dimenticato. E il motivo è proprio quello a cui si accennava: il suicidio non ha “sanato”, non ha “risolto” un bel nulla.
L’irrisolto che rimane è, in termini psicologici, l’impossibilità della sublimazione: il mito in Pavese non è che uno strumento per ottenere l’unica cosa che davvero gli interessò in vita (la fica la fica la fica, ricordiamo). In un certo senso, l’ostracizzazione dimostra indirettamente che Pavese è ancora vivo nella misura in cui continua a morire di fica. Esiste, a essere onesti, un sospetto di “sofisticazione”, che potrebbe in extremis tenere in piedi il castello di carte di Jesi, da rintracciarsi in alcuni sparute manifestazioni di quella “paranoia da tragico greco” à la Simone Weil. Solo per citare due luoghi: «La situazione tragica greca è: ciò che deve essere sia. […] Di qui la catarsi finale che è l’accettazione del dover essere» (26 settembre 1942) & «Nella tragedia greca non ci sono i malvagi. Non vi si chiarisce una responsabilità, si constata un fatto – un destino» (12 gennaio 1946).
Queste pillole di “immoralismo” vengono strizzate fino all’estremo dallo Jesi, che senza citarle ne ricava uno dei suoi corollari sulla “vera innocenza che l’antica festa garantiva nell’orgia”; ma Pavese ha ridotto anche tale mito a chiarezza, facendone ancora un mezzo per ottenere some of that sweet ass (no, non è Shakespare o Wilde). Leggiamo appena la nota del 7 dicembre 1937: «C’è un’arte di far accadere le cose in modo che sia in coscienza virtuoso il peccato che commettiamo. Imparare da qualunque donna». Tutto qua (Oh Pavese!). Volendo problematizzare, più per onestà intellettuale che per reale convinzione, l’unica fanfaluca da mitobiografia bernhardiana sulla quale il Nostro rimuginò fino all’autosuggestione fu il “mito delle nozze”, la convinzione che solo il matrimonio «segna il trapasso dalla giovinezza alla maturità» (24 novembre 1938).
Ecco, l’unico accenno di “mito” che riconosco in tutta l’opera esoterica ed essoterica di C.P. è l’idea fissa che «sposarsi vuol dire costruire una vita», con l’ovvia deduzione che «tu non te la costruirai mai» (25 dicembre 1937). È tuttavia un sostegno evanescente a qualsiasi ipotesi di “suicidio sacrificale”, se non una vera e propria illusione ottica, perché sotto sotto Pavese non credeva neppure a quello: il semplice assistere al compiersi del “miracolo” puntualmente attorno a sé gli offriva però un alibi per illudersi che il “culto del gesto morale” fosse, ad onta di qualsiasi materialismo storico, ancora valido per gli uomini e le donne. Eppure l’impossibilità di trovare anche solo una donna proiettò la normalità altrui in un iperuranio ierogamico, nel quale il “rito” (trovare la fica la fica la fica) era valido per chiunque (dai suoi compagni di scuola ai “vecchiotti” di Santo Stefano Belbo fino a Ernesto de Martino) tranne che per il povero Pavese.
Purtroppo i critici non potranno mai afferrare certe sfumature: per capire un morto di fica, servirebbe un altro morto di fica. Per esempio, l’esimio filologo che discetta sul “masochismo” di Pavese nello scegliere donne “inadatte” a lui, non è lo stesso che ha insidiato una sua alunna e se l’è poi sposata? E che cos’era Nanda Pivano, nei confronti del (suo) Maestro? Ci vorrebbe perlomeno più umiltà ed empatia nell’affrontare la morte per fica di Cesare Pavese, perché alla fin dei conti De te fabula narratur! Pure un approccio “disincarnato”, d’altronde, lascia il tempo che trova: il denso apparato di note dell’ultima edizione del Mestiere di vivere a volte rasenta il ridicolo, nel riportare qualsiasi affermazione dell’Autore a questioni estetiche, persino quando egli è più esplicito che mai:
«Due cose t’interessano: la tecnica dell’amore e la tecnica dell’arte. A tutte e due sei giunto con ingenuità e rozzezza non prive di sapore. In tutte e due hai cominciato con eresie: venere solitaria e urlo passionalmente ritmato. In tutte e due hai creato qualche capolavoro. Ma verrà il giorno che scoprirai il tuo 13 ag[osto] anche dell’arte» (31 dicembre 1937).
Nel commento, il 13 agosto (1937) è considerato “giorno di impotenza generativa” (eh sì): reticenza assolutamente volontaria, considerato che il contesto della prima mazzata sentimentale è noto da decenni. Ciò si spiega solo con la rimozione colossale del “corpo di Pavese”, passato in forma di cadavere nella critica attraverso le dicerie sulla ejaculatio precox, altro “pettegolezzo” che sempre secondo l’ultimo pensiero di Cesare si sarebbe dovuto evitare. Nondimeno, tutto questo rimosso ora riemerge come scoria tossica nella feroce misoginia d’oltreoceano e nella “questione maschile” a un passo dal trasformarsi in emergenza sociale, quasi in una grottesca “vendetta postuma” del Poeta. Pavesismo inconscio delle masse? C’è da augurarsi soltanto che a nessuno di costoro capiti sottomano una copia di This Business of Living…
Una cosa non mi è chiara: Pavese non era un brutto uomo, e non sembrava nemmeno timido, almeno da un certo punto della sua vita in poi. A parte il problema di volersi intestardire con le donne per cui aveva una fissa, per il resto mi sembrerebbe assolutamente un buon partito: divenne famoso già in vita e vinse addirittura il premio Strega. Mi parrebbe in grado di avere varie donne anche al giorno d’oggi, figuriamoci allora quando la società era molto più pariarcale. Perché dunque non aveva successo con le donne ? (oppure, è vero che non aveva successo, o era solo una sua impressione perché voleva esattamente e solo la donna di cui era in fissa?). Non riesco a a spiegarmelo. Di certo quelli erano i tempi in cui le donne potevano tirarsela molto meno di adesso e c’era una distribuzione più “democratica” delle relazioni.
L’ipotesi di cui si parla più spesso è che fosse impotente o comunque soffrisse di disfunzioni sessuali, come sembrerebbe confermato da diversi passi del Mestiere di vivere, o da brani come il seguente, tratto dalle memorie della Pizzardo:
“Neanche adesso oso dirgli: non sai o fingi di non sapere che l’amore, capisci che intendo?, l’amore ci è precluso. Tutto ci è stato dato per essere ‒ per qualche tempo! ‒ felici assieme, negato solo ‒ tu sai che cosa. Perché fingi di non sapere? E non è poco, infatti è ciò che tu soprattutto desideri da me.
E solo per questo che non lo voglio? Per questo in sé e per i riflessi che ha sul suo carattere. […] Se Pavese fosse un uomo normale, un uomo e non l’eterno adolescente, per disperazione mi sarei affidata a lui per togliermi l’altro dal cuore, dalla mente, dalla vita.
Infine il 13 agosto ’37 (a un tavolo di caffè a Porta Palazzo) per porre fine alle sue tormentose insistenze trovo il coraggio di dirgli ciò che per pietà gli ho sempre taciuto, ciò che lui sa e finge di non sapere, ciò che mai avrebbe voluto sentire.”