Leopardi e Pavese: un trionfo “senza la carne, senza il sangue, senza la vita”

Fin dalla più tenera età alla gioventù italiana vien fatto credere che la vita di Leopardi sia stata caratterizzata da continui insuccessi, non solo dal punto di vista esistenziale ma soprattutto artistico: il “gobbetto” a quanto pare fu osteggiato dall’intellighenzia contemporanea, la sua fama rimase confinata al suo orticello e dovette esser sempre sostenuto finanziariamente dal padre e dagli amici. Ebbene: la biografia e le testimonianze provano il contrario, ovvero sia che il Poeta fu un “divo” per la sua epoca, sia che quelli spacciati per “insuccessi” dimostrano invece la centralità della sua figura nelle contese del tempo.

Come si evince da vari passi del ricchissimo epistolario, il Recanatese a Bologna venne “quasi festeggiato” e scoprì che anche i popolani lo “stimano gran cosa”. Alla sorella, tra il serio e il faceto, confessò: «Non sai tu che io sono un grand’uomo, che in Romagna sono andato come in trionfo, che donne e uomini facevano a gara per vedermi?».

Certamente l’equivoco nasce in primo luogo dal mito romantico del “genio solitario”, dell’artista compreso, alimentato dalle antologie scolastiche: tuttavia, si intravvede dietro tale pregiudizio un’ispirazione meno sublime, confermata dal “caso” Pavese. Qui è la critica stessa a sforzarsi in tutti i modi di dipingerlo come un “fallito di successo”, un reietto, un incompreso: eppure è il più importante letterato del dopoguerra, come testimonia del resto l’impossibilità di sbarazzarsene da parte dell’industria culturale italiana, nonostante il boicottaggio accademico ed editoriale a cui è stato sottoposto nel momento stesso in cui s’è ucciso.

Anche gli intellettuali che stimano Pavese non possono fare a meno di dipingerlo come totalmente isolato dal clima intellettuale del suo tempo, quando una semplice scorsa alla “Cronologia della vita e delle opere” dimostrerebbe al contrario che, in ambito artistico e lavorativo, Pavese non abbia sbagliato un colpo: tutto quel che scriveva, persino le poesie tirate via e i racconti buttati giù per noia, veniva accolto come un capolavoro. Ed ecco quindi che bisogna inventare insanabili dissidi col Partito Comunista, fino a spingersi a speculare sul “proto-nazismo” e l’irrazionalismo dell’Autore, quando invece, al di là di normali incomprensioni, Pavese fu perfettamente inserito, anche da una prospettiva egemonica, nell’humus politico coevo.

Perché tutto questo? Perché ci si vuol convincere che due tra i più grandi scrittori italiani (e mondiali, perché no) abbiano goduto solo di gloria postuma? Soprattutto per quanto concerne Pavese, è difficile non sospettare che tale strategia interpretativa venga messa in atto per giustificare i suoi insuccessi con le donne. In pratica bisogna convincersi che i fallimenti sentimentali non furono che un riflesso del destino cinico e baro; altrimenti chissà quale maliziosi pensieri riguardanti la natura muliebre potrebbero baluginare nelle menti dei lettori…

Paradossalmente a cogliere il punto -seppur in maniera indiretta- è Cesare Segre (1928–2014), uno dei censori più severi del Nostro dal punto di vista degli affetti (“Sembra che Pavese si rivolga sempre a donne che, in modo diverso, sono le meno adatte a realizzare il tipo di unione che lui vagheggia”), il quale però in una raccolta di racconti piuttosto didascalici -quasi prosaici- di qualche anno fa, Dieci prove di fantasia, ha trovato il modo di esercitare un minimo di pietas nei confronti del suo maestro e autore (che fortunatamente -per lui- non può trasformarsi in empatia, perché il critico trovò la “donna giusta” in una collega vent’anni più giovane):

«Si alzò per andare a rivedersi nello specchio. Sempre più cupo. Il bicchiere era lì, pronto a fargli ingurgitare le pillole. Eppure lui era sorridente la sera del premio [lo Strega, vinto nel 1950 per La bella estate]. Grande cosa vedere riconosciuta l’importanza dei suoi libri. Si era sentito un re portato in trionfo. Sì, ma un trionfo senza la carne, senza il sangue, senza la vita. E non basta a saziare uno scrittore il pensiero di aver dato poesia agli uomini».

Già. Diamo a Cesare quel che è di Cesare (sia al Segre che al Nostro): “Nel mio mestiere dunque sono re”, scriveva nelle ultime due pagine del diario, “Nella mia vita sono più disperato e perduto di allora”, perché “non ho più nulla da desiderare su questa terra, tranne quella cosa che quindici anni di fallimenti ormai escludono”. Esatto, parliamo proprio di quella cosa: la fica la fica la fica – “oh Pavese” (cit.)

Per la fica la fica la fica: capire Cesare Pavese

Il “mistero” è perciò risolto. Non è questione di status, né di grandezza intellettuale (e tanto meno morale). Anche Pavese lo aveva intuito, in una pagina del 31 agosto 1940:

«Non c’è idea più sciocca che credere di conquistare una donna offrendole lo spettacolo del proprio ingegno. L’ingegno non corrisponde in questo alla bellezza, per la semplice ragione che non provoca eccitamento sensuale; la bellezza sì. Tutt’al più si può conquistarla in questo modo, quando l’ingegno appaia un mezzo di acquistare potenza, ricchezza, considerazione – valori di cui per riflesso la donna, lasciatasi conquistare, godrebbe anche lei. Ma l’ingegno, come stupenda macchina che si muove disinteressatamente, lascia indifferente qualunque donna. Verità che non dovresti dimenticare».

Qui lo scrittore sembra comunque valutare l’intento di aumentare il proprio status (non solo economico, ma soprattutto “sociale”) per impressionare qualche donna, vagheggiando la possibilità che funzioni (“tutt’al più si potrebbe”…). Il suo suicidio però attesta altrimenti: e se questa cosa non ha funzionato nemmeno per lo scrittore italiano più famoso dei suoi tempi, perché dovrebbe valere per noi nullità?

Col senno di poi, potrei compiacermi del fatto di essere realmente un “fallito”, di aver scansato qualsiasi occasione di “farmi un nome” o emergere. Mi sono sempre illuso che fosse una questione di sana umiltà, anche se talvolta ho semplicemente dato la colpa il mio carattere chiuso e introverso, quando invece è probabile che a livello inconscio stessi solo cercando di preservarmi dalla delusione più amara di tutte: il successo esistenziale, lavorativo, “materiale”, non garantisce quello sentimentale.

Posso quasi ripercorre la mia vita come una sistematica corsa al fallimento: forse è vero che il motivo per cui ho sempre “fiutato” il successo come un pericolo è stato per non togliermi l’ultima illusione di non piacere alle donne perché fallito (e non perché brutto). Finora non mi ero reso conto di quanto fosse insopportabile un trionfo “senza la carne, senza il sangue, senza la vita”. Per quel che mi conosco sono certo che alla lunga il suicidio mi sarebbe parso l’unica via di uscita. Ringrazio ordunque l’Altissimo e i Mani onorati ed onorandi di avermi risparmiato dall’apparir del vero: cioè che nemmeno nell’arte (intensa nel senso più lato possibile) sia possibile trovare salvezza.

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