Putin è un Navalny che ce l’ha fatta

Le ultime elezioni russe hanno dato un risultato piuttosto prevedibile: Vladimir Putin all’88%, l’Occidente strilla, il Cremlino guarda e passa. Invece di denunciare senza prove brogli e irregolarità, qualche giornalista dalle nostre parti avrebbe potuto ricordare come lo Zar sanguinario prima dello scoppio della guerra avesse intenzione di farsi da parte proprio nella prospettiva del suo ultimo mandato, che si sarebbe per l’appunto concluso nel 2024.

Al contrario, il povero Vladimir è stato letteralmente costretto dalla sua corte di boiardi a far approvare una serie emendamenti, prima per allungare la durata del mandato presidenziale da 4 a 6 anni, e poi ad “azzerare” nel 2020 i suoi mandati per consentirgli di stare al potere vita natural durante in virtù di un impenetrabile dispositivo burocratico-plebiscitario.

Facile descrivere Putin come assetato di potere il controllo, ma a me pare che la verità risieda più nell’interpretazione opposta, che lo vedrebbe stanco, esasperato e deluso. Tutto ciò lo si è potuto percepire nella “storica” (si fa per dire) intervista a Tucker Carlson, dove il Nostro non solo ha riabilitato la figura di Boris Eltsin presentandone come una sorta di “successore”, ma addirittura ha voluto assumere il tono di “amante tradita” dagli occidentali, in un crescendo di patetismo e vittimismo.

Devo ammettere che è stato proprio dopo averlo visto proclamare la sua forma mentis intrinsecamente filo-occidentale che ho iniziato a convincermi quasi in maniera definitiva che Vladimir Putin sia, in finale, un Navalny che ce l’ha fatta.

La rigida contrapposizione stabilita dagli ultimi vent’anni tra lui e Eltsin dai suoi sostenitori europei e americani è evaporata come neve al sole, regalandoci l’immagine di un Putin costretto addirittura a sposare la retorica dei “sogni infranti” (di un futuro di benessere e civiltà, da “occidentali”, insomma) con cui il suo predecessore, nel discorso di addio (tenuto, come d’obbligo, dopo essersi scolato qualche damigiana di vodka), lo indicava come naturale promotore delle sue politiche ispirate alla “ricerca della felicità”.

Bisogna dare allo Zar quel che è dello Zar (l’etimologia, del resto, è quella): Vladimir Putin non solo è riuscito a gestire il consenso in maniera sopraffina (e paradossalmente tutti gli oppositori morti non hanno fatto che oscurare le sue doti politiche) ma ha permesso a Mosca di risollevarsi quasi subito dall’umiliante “sconfitta” (resa ancora più avvilente dal fatto di non esser stata nemmeno tale) riconsegnandole il ruolo che le spettava nel Caucaso, in Asia, nel Medio Oriente e ai confini dell’Europa.

Ancor meglio, ha dato alla Russia un nuovo ruolo nello scacchiere internazionale, che l’Unione Sovietica aveva velocemente consumato sfruttando tutte le possibilità della favola dell’internazionalismo socialista. Va inoltre ricordato che la risoluzione dei conflitti con i secessionisti etnico-religiosi, sobillati sia dalla dissoluzione dello Stato centrale post-89 che dallo squallido opportunismo occidentale (che ha trasformato i terroristi ceceni in freedom fighter) ha dettato sin dall’inizio la linea di tutta la politica interna, ma proiettata all’esterno, di Putin.

Tutto questo, obiettivamente, avrebbe potuto farlo uno Eltsin leggermente più giovane e sobrio, e dunque anche un Navalny. Non sembri un’affermazione eretica o blasfema né per l’uno né per l’altro schieramento (in ogni caso gli italiani dovrebbero sempre tener a mente che “fare il tifo” non è l’approccio ideale alle relazioni internazionali), anche perché la conseguenza immediata di tale ragionamento è che la responsabilità principale ricade tutta sulla slealtà (perlopiù intellettuale) dell’Occidente.

Sia chiaro che Putin al confronto di Eltsin potrebbe persino apparire come un “messia”, ma va dato atto a quest’ultimo di aver gestito una transizione traumatica, soprattutto per la sua natura “subliminale”, di una guerra persa senza nemmeno aver combattuto sul serio.

Dunque sembra Washington e i suoi vassalli debbano rendersi conto che nessun “governo fantoccio” potrà impedire a Mosca di seguire il proprio destino (non solo geopolitico): considerando anche il fatto che il buon Navalny, pace all’anima sua, fosse molto più estremista e radicale di Putin riguardo alle popolazioni caucasiche, è difficile credere che con un suo governo, di qualsiasi orientamento e ispirazione, la Russia si sarebbe disgregata in una trentina di repubbliche e il despota liberale filo-occidentale avrebbe regnato su una zolla di terra adottando la bandiera arcobaleno come nuovo vessillo nazionale.

Con ciò, per concludere, non intendo affermare che la geopolitica sia una scienza esatta e che i “blocchi” asiatico o eurasiatico e occidentale o euro-americano dovranno vivere in ostilità perpetua, ma che per quanto le affabulazioni occidentali siano suggestive, è più che ingenuo ridurre per l’ennesima volta la storia a una cospirazione del malvagio di turno intento a sabotare il piano perfetto e omogeno dei benefattori dell’umanità.

È probabile che sia soprattutto per questo motivo che non è mai sorta in questi decenni alcuna alternativa minimamente credibile a Vladimir Putin: troppi sogni infranti da una parte all’altra della “cortina”, mentre la Realpolitik continua a pretendere i suoi sacrifici.

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