Non parlo più molto spesso della Turchia sia perché ho detto tutto quello che avevo da dire in questi anni (in due parole: FORZA ERDOĞAN), sia perché da quando è scomparso l’amico Giuseppe Mancini provo una certa tristezza a pensare al modo in cui dalle nostre parti si discute di quel grande Paese. Basti osservare come in queste ore i giornali italiani stanno raccontando le ultime elezioni: macchina del fango in modalità “azione perpetua” contro il Sultano, salamelecchi verso un’opposizione della quale non sanno nulla, se non che è, boh, “laica”?
Non capisco cosa si siano messe in testa le élite progressiste occidentali, ma di certo non lo otterranno dall’attuale leader dei “repubblicani” Kılıçdaroğlu (che non sanno nemmeno pronunciare anche se è sulla scena da più tempo di Erdoğan e ha regolarmente perso tutte le contese elettorali-referendarie contro quest’ultimo), ma il fatto che, giusto per citare, i media nostrani -e internazionali- abbiano accentuato il sostegno dell’ormai quasi disciolto HDP (noto -erroneamente- come “partito dei curdi”), in verità confluito nella versione turca dei Verdi, è sintomo della grande confusione al riguardo.
Posto che i curdi reali non sono i “curdi” (tra virgolette) idealizzati dalla stampa occidentale, ma si tratta di persone perlopiù normali (che votano meno in base alla propria “etnia” che non ai propri interessi politico-ideologici o anche economici), è tuttavia identificabile un nucleo “identitarista” in tale elettorato, i cui voti sono però quelli che solitamente i partiti turchi vogliono evitare di prendere (per non dover concedere qualcosa in caso di vittoria), come dimostra appunto la strategia del CHP di Kılıçdaroğlu fino alle ultime elezioni.
Cos’è cambiato, allora, nel 2023? Semplice, i “repubblicani” (andrebbero chiamati così e non con l’anacronistica definizione di “kemalisti”, i cui ideali nazionalisti e secolaristi hanno pressoché abbandonato, con conseguenti scissioni) hanno cercato di allargare la coalizione all’estremo, promuovendo una “Alleanza Nazionale” (il nome non promette bene…) che ha come principale criterio di unificazione la spartizione delle poltrone. Forte di tale strategia, che sembrava convincere tutti, Kılıçdaroğlu ha promesso un posto anche a quelli dell’HDP (che ne sono rimasti fuori anche nella loro nuova forma): un segnale della spregiudicatezza (probabilmente sostenibile solo sulla breve distanza) di tale proposta politica.
Tale spregiudicatezza si è manifestata soprattutto nella eterogeneità delle istanze della coalizione capitanata dal CHP: sembrano “filo-curdi” ma si sono sempre opposti a qualsiasi tentativo di accordo tra il governo turco e la minoranza etnica (addirittura lanciando anatemi contro Erdoğan il quale, machiavellicamente, ha rivendicato una tradizione politica diversa rispetto a quella dei nazionalisti che avevano provocato il cosiddetto “genocidio”); sono filo-NATO ma hanno sempre protestato contro il sostegno dell’Alleanza ai curdi siriani e per quanto riguarda il conflitto russo-ucraino sono forse più filo-Putin del Sultano; sui cosiddetti “diritti civili”, cioè LGBT eccetera (ormai si sono ridotti solo a quello), non ci sono posizioni esplicite dei partiti, anche se a qualche esponente sono state strappate dichiarazioni che chiaramente lasciano il tempo che trovano.
Essendo io italiano e trovando incomprensibile il tifo da parte dei giornalisti (che comunque è sempre “parapiddino”, perché qui Erdoğan è odiato a destra e a sinistra, da “il manifesto” a “La Verità”), sulle elezioni turche posso solamente augurare che vinca il migliore. Probabilmente Erdoğan dovrà scontare il logoramento della sua leadership, una crisi che comunque non ha nulla a che fare con i matrimoni omosessuali o la questione curda o altre favole che (si) raccontano gli occidentali.
Il punto essenziale è che, nel bene e nel male, il Sultano ha riportato la Turchia al centro della storia facendole di conseguenza vivere “tempi interessanti” (nel senso del motto pseudo-cinese). Una posizione che alla lunga potrebbe spingere un popolo a desiderare la “normalizzazione”, persino se tale processo comportasse sacrifici più grandi rispetto al mantenere il ruolo nuovamente riconquistato nello scenario internazionale.
In fondo quello che sto dicendo è comprensibile anche a chi non aveva mai sentito parlare della Turchia prima di Erdoğan; anzi, il succo è proprio questo: quando mai per delle elezioni turche si è scomodato l’apparato politico-mediatico con tanto di titoloni e “dirette”, se non dal momento in cui un vero leader ha restituito a quella nazione il posto che le spettava?
Prima del Sultano, il Paese, reduce da decenni di golpe militari e sovranità limitata, si era ridotto quasi a “stato cuscinetto” per la nuova strategia atlantica: un tradimento di tutto ciò che la Turchia ha rappresentato nei secoli. A ben vedere, Erdoğan ha cominciato a rappresentare realmente un problema nel momento in cui ha smesso di marciare in parallelo alla strategia americana nella regione, una volta resosi conto che nel Nuovo Ordine Mondiale l’area “ex-ottomana” sarebbe diventata la discarica dei conflitti geopolitici del mondo intero. Chi gli si oppone a livello internazionale non vuole ovviamente il bene del popolo turco: ai sedicenti progressisti delle parrocchiette e delle redazioni andrebbe bene anche una Istanbul “saudizzata”, a patto che il Paese “ritornasse al suo posto”. E in tal caso persino sulla questione curda continuerebbero a dormire sonni tranquilli…