Silvio geopolitico: i segreti della diplomazia berlusconiana

Nel pieno della crisi diplomatica tra Mosca e Ankara, scoppiata alla fine del novembre 2015, quando due F-16 turchi abbatterono un Su-24 russo nel contesto della la guerra civile siriana (un evento al quale non fu estraneo il Deep State nazionale, incarnato in tal caso nei famigerati Lupi Grigi), il compianto Silvio Berlusconi scrisse un’importantissima lettera al “Corriere della Sera” nella quale ricordava i suoi rapporti personali con i Presidenti di entrambi i Paesi (il fratello Vladimir e l’amico Tayyip) ed evocava l’apogeo di quella entente cordiale modellata sulla sua persona nell’ottobre 2009 a Valdaj, quando sancì, in veste di Presidente del Consiglio, l’accordo sul gasdotto South Stream al cospetto di Putin (in presenza) ed Erdoğan (in teleconferenza).

L’incontro si svolse secondo il format più confacente alla personalità del Nostro: “Ciao Tayyip”, “Va bene Tayyip”, incalzava B., avanzando tra una battuta sul gas e una sul calcio la proposta di un summit in Italia («E garantisco che il menù vi piacerà!») per poi congedare l’amico turco con un “Ciao Tayyip, un abbraccio fortissimo!”.

Tutto sommato un successo, anche se di brevissima durata: il South Stream venne annullato dalle sanzioni europee e a Berlusconi fu proibito l’ingresso in Ucraina a causa della sua visita in Crimea. Tuttavia, ancora nel 2015 (a maggio) e ancora sul “Corriere”, era apparso un altro intervento di Silvio a stigmatizzare l’assenza di leader occidentali a Mosca per le celebrazioni dell’anniversario della fine della Seconda guerra mondiale, un gesto che considerava senza termini “una mancanza di rispetto”, frutto di “miopia” e di “errori di prospettiva”.

Retoricamente, l’ex Presidente del Consiglio italiano si chiedeva se fosse una scelta lucida “costringere la Russia ad isolarsi, a scegliere l’Asia e non l’Europa”, con opinioni lungimiranti anche sull’attuale conflitto in Ucraina:

«È vero, con la Russia ci sono delle serie questioni aperte. Per esempio la crisi ucraina. Ma sono problemi che è ridicolo pensare di risolvere senza o contro Mosca. Anche perché in Ucraina coesistono due ragioni altrettanto legittime, quelle del governo di Kiev e quelle della popolazione di lingua, cultura e sentimenti russi. Si tratta di trovare un compromesso sostenibile fra queste ragioni, con Mosca e non contro Mosca.
Certo, siamo consapevoli delle ragioni dei Paesi baltici che hanno sofferto l’espansionismo sovietico. È ovvio che dobbiamo farci carico della loro sicurezza. Ma tale sicurezza si garantisce meglio con una Federazione Russa parte integrante dell’Europa e dell’Occidente, o con una Federazione Russa asiatica, isolata e conflittuale?
E questo senza contare l’elevatissimo prezzo economico che le aziende italiane ed europee stanno pagando per la recente adozione di una politica sanzionatoria che non ha portato alcun risultato concreto.
Per tutte queste ragioni, caro Direttore, considero quelle poltrone vuote sulla Piazza Rossa non una prova di forza, ma l’emblema di una nostra sconfitta».

A tale intervento, nemmeno un mese dopo, seguì un’intervista in prima pagina del quotidiano di via Solferino allo stesso Vladimir Putin, nel quale il leader russo esprimeva tutto il suo apprezzamento nei confronti dell’alacre impegno alla mediazione da parte di Silvio:

«Fu un’idea dell’Italia, allora il Presidente del Consiglio era Silvio Berlusconi, la creazione del Consiglio Nato-Russia, un organo di consultazione che certamente è diventato fattore importante di garanzia della sicurezza in Europa. In questo senso l’Italia ha dato e dà un contributo notevole allo sviluppo del dialogo tra la Russia e l’Europa e anche con la Nato in generale. Tutto ciò crea rapporti speciali tra i nostri due Paesi». 

Il “segreto” della diplomazia berlusconiana, conosciuta anche come “Diplomazia del cucù” o “della patata”, riguardava soprattutto la capacità di modellarsi sulle volontà degli interlocutori, assumendo, a seconda dei casi, le sembianze dell’oligarca russo, del tycoon americano, dell’empresario sudamericano, del monopolista orientale, dell’azionista petrolmonarchico, del Raubritter dell’Est Europa ecc., grazie a una serie di caratteristiche paradossalmente meno riconducibili alla storia personale di B. che non alla sua area politica di riferimento, le cui peculiarità furono inquadrate in tempi non sospetti da Marcello Veneziani (in La cultura della destra, Laterza, 2002):

«Una destra selvatica […] che aderisce in modo istintivo all’apparato tecnologico-mercantile del presente come unico ancoraggio di concretezza: […] la tv e il conto in banca prendono il posto del pulpito e dell’orto e diventano le nuove colonne basilari della casa; una destra che si arrabatta agilmente [tra le forme e le icone] dell’era della comunicazione visita e televisiva».

I successi di questo approccio (non del tutto estemporanei, come testimonia la diversa risoluzione del conflitto georgiano rispetto a quello ucraino) nacquero perciò da una miscela del potenziale a-politico (o anti-politico) di Berlusconi (riconosciuto come di per sé stesso ideologico, tanto da spingere intellettuali come Mario Perniola o Valerio Magrelli ad attribuire al personaggio la realizzazione di tutte le aspirazioni sessantottesche, dal programma erotico-politico di Wilhelm Reich alla descolarizzazione della società di Ivan Illich) con una enorme capacità imprenditoriale, la quale consentì al suo detentore di esercitare quella spregiudicatezza da “mercante” che secondo Eibl-Eibesfeldt rappresenta un elemento cruciale nell’instaurazione di relazioni pacifiche tra gruppi disomogenei per cultura ed etnia (cfr. Etologia della guerra, Bollati, 1998):

«Lo scambio di doni […] esprime volontà di pace e si è osservato spesso che in origine il commercio era propriamente una relazione di scambio di questo genere a vantaggio del legame; […] ancora oggi [alcune popolazioni] esercitano il commercio senza che esso sia loro necessario».

Ora che la situazione si è fatta più seria, uno dei tanti pericoli rappresentati dai nuovi conflitti è che il berlusconismo “internazionale” si sviluppi in senso opposto rispetto alle aspirazioni neutralistiche e si radicalizzi nel tentativo di darsi un senso finalmente politico. Tale sviluppo era già presente in nuce in alcune dichiarazioni eclatanti del Nostro, come quella riportata da Alain Friedman nel suo celebre libro-intervista (My Way, Rizzoli, 2015):

«Il popolo della Crimea parla russo e ha votato con un referendum per riunirsi alla Madre Russia».

L’irritazione per esser considerato eternamente un marchand de soupes italien (come lo definì Chirac) unita al desiderio di ottenere una improbabile riabilitazione politica («Gli altri […] dicono quello che dicevo io, senza riconoscermelo», per citare ancora la lettera al “Corriere”), negli ultimi tempi (o tempi ultimi) pare infine aver costretto Silvio a rinunciare al proprio talento proteiforme e perdere la sua migliore qualità, quella appunto di essere un uomo senza qualità. In verità la responsabilità di tale “svolta” non andrebbe attribuita al singolo soggetto, ma ricondotta al fallimento generale del percorso di de-ideologizzazione (nel quale sono ovviamente confluite le varie “utopie liberali”) che l’umanità si era illusa di poter seguire coerentemente.

Nel contesto degli “imprenditori prestati alla politica”, forse un esempio che contempli una qualche forma di colpevolezza personale potrebbe riguardare la figura dell’oligarca ucraino Petro Porošenko, il “re del cioccolato”, che ha barattato un business fiorentissimo (basato sulle esportazioni verso la Russia) in cambio di un parlamento assediato dagli estremisti, una schiera di alleati rapidamente dileguatisi e una “cura da cavallo” liberista che ha condannato il Paese a decenni di recessione.

Indubbiamente nella borghesia ucraina non ha fatto in tempo a sedimentarsi quel sentimento di ostilità verso la politica («Una cosa inventata dai perdigiorno, cioè dagli avvocati, dai politici, dai “terroni”», scriveva nel 1995 uno degli ideologi di Forza Italia, Saverio Vertone) che ha caratterizzato invece gli imprenditori lombardi sin dai tempi di Renzo Tramaglino, anche se leggendo in prospettiva gli eventi si può individuare un fil rouge tra il vecchio e il nuovo “cioccolataio”, ovvero quell’improponibile Volodymyr Zelens’kyj che sembra intenzionato a portare l’antipolitica alle sue estreme conseguenze, cioè l’annientamento dell’umanità in quanto tale (essendo essa composta di zoon politikon).

Questo spiegherebbe la “deriva” dell’ultimo Silvio, assimilato dagli stessi ucraini (che pure tanto o avevano amato) a un affarista del Gruppo Wagner o addirittura a una spettrale manifestazione di una nuova “Dottrina Brežnev”. Ricordando la maniera brillante con cui Berlusconi intervenne nel conflitto georgiano, si può pensare, di nuovo, a un fallimento collettivo -e non individuale- della diplomazia occidentale, ed esaltare il coraggio di un uomo che comunque avrebbe potuto agilmente defilarsi nel momento della polarizzazione (come ha fatto un certo Salveenee) ma che invece ha deciso di salvare il politico nel momento in cui l’ennesima fantasia di una sua rimozionee sta portando a un conflitto atomico. Forse i posteri, al di là dei fasti mediatici attuali (frutto perlopiù del senso di colpa da parte dell’establishment medioprogressista per avergli impedito di governare con mezzi non democratici, che non di una reale “normalizzazione” post mortem) riconosceranno la sua grandezza soltanto in questo. E sarà già tanto.

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