Terrorismo a cura di Benjamin Netanyahu

Nel 1986 il Jonathan Institute, un think tank israeliano dedicato alla memoria del fratello di Benjamin Netanyahu (ucciso in azione durante l’operazione Entebbe), organizzò una conferenza internazionale sul terrorismo, dalla quale scaturì un volume pubblicato in Italia nello stesso anno dalla Mondadori col titolo Terrorismo. Come l’Occidente può sconfiggerlo.

La raccolta di interventi, seppur talvolta all’insegna della propaganda più smaccata, offre comunque alcuni spunti pregevoli (sfortunatamente più attuali che mai): per esempio, l’allora Segretario di Stato americano George Shultz riconduce il terrorismo alla dimensione umana, ricordando che esso «non è, come un terremoto o un uragano, un atto della natura di fronte al quale siamo impotenti», e la giornalista Midge Decter completa l’osservazione aggiungendo che quando il terrorismo viene ridotto a “malattia sociale” (della quale i terroristi sarebbero portatori «così come gli animali innocenti possono essere portatori di rabbia»), la conseguenza è che «[negare] a un uomo il suo arbitrio […] [solleva] dal dovere morale di prendere decisioni nei suoi confronti; egli diventa una disgrazia della società, come un disastro in miniera o un calo di energia».

Questo è già un punto fondamentale, poiché è sempre più forte la tendenza a confondere le catastrofi naturali con quelle prodotte dall’uomo (come a dire: terrorismo = terremoto). Addirittura, l’opinione pubblica sembra quasi incoraggiata dai media a reagire ai due fenomeni in maniera opposta: se un attentato deve essere accolto in modo fatalistico (come qualcosa che prima o poi deve accadere), l’esondazione di un fiume o il crollo di una palazzina devono invece essere messi in conto direttamente alle vittime (i cui peccati sono ora ridotti a una dimensione legislativo-burocratica).

Altra precisazione essenziale e sempre valida è quella del giurista Eugene Rostow:

«Il maggior pericolo che l’umanità deve affrontare, al giorno d’oggi, non sono le armi nucleari, l’inquinamento, l’esaurimento delle risorse naturali o l’espansione demografica, bensì lo stato di anarchia che si propaga al dilagare delle aggressioni».

Alla faccia di tutti i “benaltrismi” che ci siamo dovuti subire dall’assalto alla redazione di Charlie Hebdo alla strage di Barcellona (andate a rileggere gli inviti a “non drammatizzare”), tali parole rappresentano comunque una lettura alternativa a quel conformismo oggi come ieri creato in laboratorio dalla famigerata “zona grigia” degli intellettuali-maghi.

Bisogna ammettere che l’intervento più suggestivo, al di là di un paio di testimonianze di altissimo livello (come il saggio di Alain Besançon), è proprio quello del caro “Bibi”. Del resto è lui il curatore del Terrorismo: il titolo del post gioca proprio su questa ambiguità, dato che i complottisti lo accusano, per tramite del Mossad, di esser dietro a decine di attentati e false flag, allo scopo di favorire da un lato l’esodo degli ebrei da Edom-Europa (per rimpinguare la crisi demografica israeliana), e dall’altro di presentare lo Stato ebraico a livello internazionale come unico alleato affidabile nella “guerra al terrore”.

(A tal proposito, mi domando spesso quale sia la “bestia nera” dei complottisti israeliani, poiché di certo loro non possono mica dire “siamo governati dagli ebrei!”: credo abbiano come bersaglio qualche “cospirazione euro-arabica”, anche se una volta persino Netanyahu ha dovuto affrontare la giudeo-massoneria internazionale nelle vesti del solito Soros).

Dicevo: l’attuale premier israeliano, che all’epoca era ambasciatore alle Nazioni Unite, non è affatto rozzo e approssimativo nelle sue analisi. Al contrario, alcune di esse sono obiettivamente condivisibili (aiuto), per esempio quando identifica il terrorismo come una forma di “guerra per procura” («Esso permette a certi regimi di intraprendere un’aggressione sfuggendo alla rappresaglia») oppure quando individua una ratio plausibile dietro ai vari attentati:

«[Il terrorismo] è sempre una violenza diretta contro persone che non hanno alcuna connessione con l’ingiustizia addotta a ragione a alla quale il terrorista pretende di porre rimedio. […] [Il terrorista] sceglie vittime innocenti proprio per il fatto che esse sono innocenti. Attaccando loro, egli abbatte intenzionalmente i confini di un conflitto accettabile e lo allarga fino a includere chiunque […]. Ciò che distingue il terrorismo è la scelta premeditata e calcolata di innocenti come bersagli».

Per certi versi è come se la “strage degli innocenti” avesse un valore fondativo («I terroristi sono i precursori della tirannia»), sia nel caso la lunga scia di sangue portasse a un governo repressivo (che perderebbe l’appoggio popolare, aprendo la strada al golpe dei moderni “assassini”), sia che la strategia del terrore risultasse vincente di per se stessa, attraverso il semplice logoramento («Lo stato totalitario rappresenta un terrorismo che è giunto al potere», chiosa il diplomatico americano Daneil Patrick Moynihan).

Non so quanto ci sia da imparare dai sionisti, i quali continuano a vantarsi di “successi” difficili da identificare. A dirla tutta, però, i consigli di Netanyahu sono piuttosto “moderati”, il che un po’ stupisce; a un certo punto giunge persino a identificare il terrorismo col bullismo: «È essenzialmente lo stesso senso di terrore che ognuno ha sperimentato da bambino, quando ci si trovava di fronte allo spaccone di quartiere».

In effetti è un esempio che anch’io propongo spesso, quello dei teppistelli di periferia trasformati in stragisti a causa del politicamente corretto. Per chi non vuol credere al Grande Vecchio o ai Protocolli dei Savi di Sion, l’ipotesi del “terrorismo fase suprema del teppismo” è da tenere in considerazione. La soluzione? Bibi suggerisce «il rifiuto responsabile di ogni intimidazione e la volontà di reagire. […] [Allo “spaccone”] gli si deve insegnare che la sua vittima non solo è pronta a resistere, ma anche a reagire vigorosamente».

Il finale, poi, è da film d’azione stile Hollywood (senza alludere a chi la gestisce):

«La sola procedura logica è il rifiuto di cedere e la prontezza a usare la forza. Questa è una linea di condotta che in effetti dice al terrorista: non cederò alle tue richieste. Chiedo che tu rilasci gli ostaggi. Se non lo farai pacificamente, sono pronto a usare la forza. Propongo uno scambio pratico: la tua vita per quella degli ostaggi. In altre parole, il solo accordo che sono disposto a fare con te è che, se ti arrendi pacificamente, non ti ucciderò».

Alla fin fine, Israele fa sempre così. Funziona? Boh.

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