Da quando Erdoğan e Putin hanno fatto la pace, si è temporaneamente interrotta la propaganda anti-turca a livello mainstream: da parecchio tempo infatti tv e giornali hanno smesso di accusare il Presidente turco di qualsiasi problema dell’Europa (terrorismo, immigrazione, egemonia tedesca) o del mondo intero. Anzi, pare che si siano quasi dimenticati della sua esistenza.
Non intendo chiaramente sostenere che Putin controlli i media occidentali (mica scrivo per il Corriere), però bisogna ammettere che i russi sono bravi nella disinformatsija: intuiscono i meccanismi con cui funziona l’informazione “libera e democratica” (conformismo, emotività, pseudo-progressismo) e la manipolano a loro piacimento, riuscendo a far circolare bufale semplicemente confezionandole nel modo adatto.
Le varie agenzie di disinformazione (non solo quelle dipendenti dal Cremlino, è ovvio) prosperano quindi sull’impreparazione e la mediocrità (anche umana) dei giornalisti. Per esempio, tu metti una foto del figlio del Presidente turco con due kebabbari (due kebbabari veri!) scrivendo che “I servizi segreti russi hanno scoperto gli incontri segreti del rampollo di Erdoğan con i capi dei tagliagole dell’Isis”, e questa storia può rimbalzare da gazzetta a gazzetta senza che vi siano conseguenze, tanto che non c’è nemmeno bisogno di pubblicare una smentita (basterebbe un microsecondo) o almeno cancellare il pezzo dal sito e far finta che non è successo niente.
Dunque, dicevamo che adesso Erdoğan non è più il “nuovo Hitler”, ma uno dei tanti “ducetti” da insultare di tanto in tanto senza temere conseguenze. Basta sfogliare un quotidiano qualsiasi per rendersene conto: ieri l’altro, tanto per citare, il “Fatto Quotidiano” ha pubblicato un pezzo dal titolo “Erdoğan vota Trump”, con una chiosa che eleva al quadrato il nulla del giornalismo italiano: «Per fortuna che i turchi di Turchia non votano negli Stati Uniti»…
Anche i turchi ultimamente ci stanno andando giù pesante con gli italiani: è un bene che i due popoli ignorino a vicenda le rispettive lingue, altrimenti sui social network sarebbe una guerra quotidiana. Così come noi scriviamo che la Turchia finanzia l’Isis, loro scrivono che l’Italia sostiene il terrorismo curdo. Certo, la maggior parte delle persone che commentano sui social network sono dei cazzoni, quindi è inutile “tastare il polso” dell’opinione pubblica sbirciando su Facebook o Twitter. Del resto è abbastanza semplice per la stampa turca (non solo quella filo-governativa) costruire “teoremi”: a parte gli adoratori nostrani del Kurdistan immaginario, ci sono i ragazzi (novantenni) dei centri sociali che vanno ad assaltare il consolato turco sventolando le bandierine del PKK, i rapporti diplomatici tra l’Italia e i vari gruppi curdi, oltre alle vecchie storie su Öcalan eccetera.
Diciamo che, così come nei computer delle principali redazioni italiane c’è il famoso “pedale delle turcherie” (ispirato a quello dei pianoforti settecenteschi che, attraverso una serie di marchingegni, permetteva di riprodurre il fragore delle grancasse, i campanelli e i piatti tipici delle marce dei giannizzeri), allo stesso modo in quelle turche ci sarà un pedale delle “italianate” (che non so come suonano, ma se la s’intende nel come la intendono gli inghilesi allora non deve essere buona musica).
Basta quindi schiacciare uno di questi pedali e anche la notizia più insignificante acquista le tinte avvincenti del complotto internazionale. Esiste però una differenza importante: mentre i turchi in fondo se la prendono col mondo intero senza paura, al contrario la turcofobia italiana assomiglia tristemente a un’estensione del nostro auto-razzismo. Quale italiano infatti si permetterebbe di diffamare quelle etnie che considera superiori (tedeschi, norvegesi, svedesi, olandesi, finlandesi) nelle modalità in cui riduce la Turchia a un coacervo di pirati saraceni e tagliagole col turbante?
Esiste inoltre un altro problema, sempre per rimanere nell’ambito italiano, ed è quello che definirei “complesso del turcimanno”, cioè la tendenza a considerarsi i protagonisti di un romanzo di Ambler per il solo fatto di trovarsi a Istanbul (ironia della sorte, anche in turco usano la stessa parola, tercüman).
Un esempio estremo di tale patologia è rappresentata da un’intervista, ormai entrata nella leggenda, che il giornalista del “Corsera” Antonio Ferrari fece a se stesso all’alba del tentato golpe del 15 luglio 2016. Ne avevamo già discusso, ma è una vicenda che val la pena di riprendere: Ferrari, a poche ore dal colpo di stato che sembrava andato “a buon fine” (ovviamente per quelli che non vivono in Turchia), aveva stilato un encomio degli “amati militari” in cui diceva addio per sempre al “Ceausescu anticomunista”. Tuttavia, poco dopo la Caporetto golpista, lo si vede correre ai ripari con una surreale auto-intervista (Chi c’è dietro il “golpe fasullo”), nella quale “mettendosi alle strette” riesce a far confessare a se stesso la tesi dell’auto-golpe, confermata da “fonti credibili e preziosissime”. L’intervento è un concentrato di millanteria e tracotanza, da parte di una persona che, oltre a non sapere nemmeno la lingua turca, vanta come “rivelazioni” il fatto che Yıldırım sia il nuovo presidente e che Ankara abbia ripreso i rapporti diplomatici con Mosca. Il tutto intercalato da esortazioni di questo tipo: «Amici e colleghi, questo è il risultato di non conoscere ciò di cui si parla, magari sbraitando scemenze in un salotto televisivo» (peraltro poco prima lui si trovava a Sky in diretta assieme al suo degno compare Carlo Panella).
Può darsi che questa non sia nemmeno una manifestazione del “complesso” di cui sopra, ma solo un esempio della megalomania infinita di alcuni clercs: tuttavia, conoscendo la fauna giornalistica nazionale (qui una tassonomia), credo che alla fine riuscirebbero ad ambientarsi egregiamente da quelle parti. Ecco infatti le “fonti credibili e preziosissime” alle quali potrebbero affidarsi, nel chiuso delle loro stanze: