Afghanistan As It Once Was:
The Photographs Of William Podlich
(Radio Free Europe, 13 luglio 2019)
Kabul nelle fotografie di William Podlich è quasi irriconoscibile: una vivace capitale piena di auto moderne, giardini fioriti e uomini e donne vestiti con eleganza, molti dei quali in abiti occidentali. Un luogo dove le donne -afghane e straniere- potevano camminare liberamente per le strade. Un luogo dove i turisti potevano in tutta sicurezza prendere un autobus e visitare i principali siti storici del Paese (o oltre il confine col Pakistan).
Di suo padre, il dottor William Podlich (secondo da sinistra nella foto qui sopra), la figlia Peg Podlich ha detto: “Dopo l’esperienza nella Seconda guerra mondiale come soldato ha voluto sostenere la causa della pace. Nel 1967, fu assunto dall’UNESCO come esperto di istruzione per un periodo di due anni a Kabul. In Afghanistan ha scattato diapositive a colori a mezzo fotogramma [su Kodachrome] e credo che abbia usato una piccola fotocamera Olympus”.
Nel 1967 Podlich, docente presso la Arizona State University, fu per due anni inviato UNESCO in Afghanistan, dove si recò assieme alla moglie, Margaret e le due figlie Peg e Jan, e insegnò all’Higher Teachers College di Kabul. Fotografo dilettante, il professore immortalò i suoi viaggi in centinaia di fotografie che la famiglia ha voluto condividere col mondo. Podlich è morto nel 2008 all’età di 92 anni.
“Quando riguardo le foto di mio padre, ricordo l’Afghanistan come un Paese di storia e cultura millenarie”, ha dichiarato Peg Podlich al “Denver Post” (che ha pubblicato le foto per la prima volta). “È stata un’esperienza straziante assistere a quanto accaduto all’Afghanistan in quasi quarant’anni di guerra. Un popolo fiero e combattivo ma amante del divertimento è stato schiacciato da forze soverchianti”.
Clayton Esterson, marito di Peg Podlich, che fa da “archivista” per le fotografie, ha detto che molti afghani hanno gradito di aver potuto rivedere com’era il loro Paese prima dei decenni di guerra: “Questo ci ripaga di tutto l’impegno per la digitalizzazione e il restauro della collezione di mio suocero”.
Nella foto che segue, studentesse afghane tornano a casa dopo la scuola, che i talebani avrebbero vietato loro di frequentare trent’anni dopo. “Per gli studenti afghani l’obbligo scolastico era fino alle superiori, e sebbene indossassero uniformi, alle ragazze non era permesso indossare un chadri (burqa) alla scuola secondaria”, dice Peg Podlich.
“Durante l’anno in cui siamo stati a Kabul, abbiamo vissuto in una casa a Shar-e Naw. I miei genitori vivevano a Denver, in Colorado, negli anni ’40. Mia madre diceva che Kabul le ricordava Denver: spesso soleggiata, con bellissime montagne in lontananza. In effetti assomigliava un po’ l’Arizona soprattutto per il paesaggio arido e la mancanza di pioggia. Dato che sono nata in luoghi come questo, è stato facile affezionarmi alla nuda bellezza del paesaggio afghano”.
“Nella primavera del 1968, la mia famiglia prese un autobus che attraversava il passo del Khyber per visitare il Pakistan (Peshawar e Lahore)”, ricorda ancora Peg Podlich. “La strada era piuttosto accidentata, in alcuni punti era terrificante, tra ripide discese e montagne! Ricordo che mio padre pagò un giovane per benedire il bus con un incensiere e allontanare il malocchio. Immagino che abbia funzionato, alla fine il viaggio è andato bene”.
Qui sotto la valle di Bamiyan, sede delle gigantesche statue del Buddha distrutte dai talebani nel 2001: “Non dimenticherò mai quanto fosse immensa e verde la valle e quanto fossero colossali le due statue del Buddha, scolpite nella parete della scogliera: uno spettacolo magnifico, anche per chi come me non poteva capire fino in fondo la fatica e la perizia per realizzarle”.
“Ero all’ultimo anno di liceo e ho frequentato l’American International School di Kabul”, conclude Peg (nella foto qui sotto a sinistra). “In Arizona dovevo camminare per quattro isolati per raggiungere la scuola; a Kabul uno scuolabus si fermava davanti casa nostra. Sull’autobus, assieme a una ventina di altri bambini, venivamo guardate a vista da donne indiane col sari“.