Prima scena. Un Paese africano qualsiasi (in un giorno qualsiasi): l’industria dei produttori di zanzariere comincia timidamente a espandersi sul territorio. Il vero “affare” della commercializzazione delle tende contro gli insetti è infatti la loro “obsolescenza” (non programmata), che impone un cambio regolare nel giro di pochi anni, il che a sua volta impone alla popolazione di “industriarsi” per potersene permettere un’altra. È un circolo virtuoso fragile, ma promettente. Poi a un certo punto arriva un filantropo internazionale e inonda il Paese di zanzariere. I produttori falliscono e l’economia locale crolla, tanto che quando le tende gratuite un giorno si esauriscono, nessuno è più in grado di fabbricarle. I filantropi, nonostante gli elogi della stampa e gli inchini di vip e rockstar, capiscono di aver combinato un disastro e dunque cercano di indirizzare il flusso di donazioni su un solo villaggio, in modo da avere un “caso esemplare” da sfoggiare di fronte ai media: nel giro di pochi anni, quel villaggio inondato di soldi diventa un “magnete” per tutti gli abitanti della regione. Una volta però che la “manna” finisce, ecco che il piccolo borgo si trasforma in un’immensa baraccopoli.
Seconda scena. Italia (2018): un giornalista pubblica sul suo profilo da social network una foto con un bambino africano in braccio. La maggior parte dei suoi “amici” si commuove di fronte allo sfoggio di virtù, ma i più scettici non riescono proprio a bersela (anche se stanno zitti). A chi se ne intende un po’ di musica, torna in mente il geniale titolo di un album dei primi Chumbawamba, Pictures of Starving Children Sell Records (“Le foto di bambini affamati fanno vendere dischi”), in aperta polemica con tutti i “concertoni per l’Africa” dell’epoca. Qualcuno, più coraggioso, prova a fargli notare che il Continente Nero non è tutto bambini affamati, deserti e bidonville, magari cita pure qualche dato sulla strabiliante crescita del PIL negli ultimi anni (una media del 5-6% a nazione). Il giornalista però si inalbera e sfodera argomenti di tal fatta: “L’Africa è un cesso e dobbiamo salvarla facendo pulire i nostri cessi agli africani”. Se la discussione andasse avanti, costui probabilmente sarebbe capace di rispondere che qualora Thomas Sankara nel 1987 fosse emigrato in Italia per fare il venditore ambulante, oggi sarebbe ancora vivo. Ecco perché in genere tagliamo corto.
Terza scena. Europa (dalla fine del XX secolo in poi): i politici progressisti della parte meridionale del Vecchio Continente ripetono fino allo sfinimento che il proprio Paese (sia esso Italia Grecia Spagna o Portogallo) non può uscire dall’Unione, altrimenti finirebbe (o scivolerebbe) in Africa («Le prossime saranno elezioni come quelle del 1948, definiranno cioè se l’Italia vuole restare in Europa o finire in Africa. […] Vogliamo stare in Europa o scivolare in Africa?», cit.). L’afflato è potente, ma non così tanto da tradire il razzismo implicito della metafora, ovvero che l’Africa sia un inferno, una discarica, un infinito deserto. In fondo, a parlare è un europeista, un ottimate, un filantropo (v. supra).
Ecco, nulla mi toglie dalla testa che queste tre scenette siano in un qual modo collegate: è sempre con il potere dei più buoni di gaberiana memoria che abbiamo a che fare. Per costoro l’unico approccio possibile all’Africa è l’assistenzialismo, il paternalismo, l’sms solidale, la “pornografia della povertà” (definizione dell’Economist). Insomma, “filantropia più il 5 percento”, come diceva uno che se ne intendeva.
Negli ultimi anni di immigrazione incontrollata, questa “narrazione” (sempre più mitologica) si è arricchita di una nuova immagine: quella dell’africano “forte giovane temerario”, perfettamente sintetizzata da un imbarazzante intervento di un regista a “Il Foglio”:
«Di fronte a questi sentimenti meschini e trogloditi, avrei voglia di essere invaso da tutti questi africani forti, giovani, temerari. […] Continuo a sperare in una futura invasione. Siamo diventati un popolo brutto, triste, meschino, ignorante, con un crollo demografico totale, destinato quindi a estinguersi; non resta che sperare nell’energia di questi popoli che col loro dolore e la loro forza possono solo migliorarci».
Tale argomento si sposa benissimo con l’idea che “gli immigrati ci pagheranno le pensioni“: essendo “forti giovani e temerari”, non si ammaleranno mai, non invecchieranno mai, anzi moriranno prima di aver riscosso qualsiasi contributo (perché “coraggiosi”, quindi disponibili a fare lavori pericolosi che gli smidollati italiani non vogliono più fare), vivranno in una baracca, andranno solo in bicicletta e berranno l’acqua delle pozzanghere. D’altronde, un minimo di benessere finirebbe per corrompere anche loro, e poi ci toccherebbe chiamare altri immigrati forti giovani e temerari a sostituirli.
Ovviamente l’argomento vale anche per gli africani in patria: non sia mai che escano dal recinto della “frugalità” e “convivialità” che gli abbiamo costruito. Signora mia, se iniziassero a inquinare pure loro, che ne sarebbe di Madre Gaia? È per questo che persino la grande stampa non ha alcun timore di chiamare in causa il colonialismo, pur mascherandolo con i colori arcobaleno della “solidarietà”:
Esiste una soluzione all’insopportabile “pensiero unico” sull’Africa? Durante questi Mondiali russi si è potuto constatare di quanto livore siano capaci i “più buoni” quando gli si addita uno spauracchio: sulla Russia hanno scritto cose indecenti, specialmente gli auto-proclamatisi “europeisti”. Una russofobia bigotta, razzista e provinciale, che non si era vista nemmeno durante gli anni più caldi della Guerra Fredda. Del resto, la Russia non è l’unico Paese che fa diventare idrofobi i buonisti. La lista è molto lunga e contraddittoria: c’è Israele e c’è la Turchia, la Siria e l’Ungheria, oltre naturalmente a tutti i Paesi dell’Est Europa (la cui russofobia spaventa le scartine europeiste).
Forse sarebbe il caso di cominciare a lavorare sulla cattiveria dei “buoni”. L’Africa si “vende” ancora troppo per potersi liberare dalle catene solidali. Per esempio, è impossibile che il giornalista di cui sopra sia disposto a farsi fotografare con in braccio un bambino con la kippah o un piccolo sfollato russo-ucraino, così come l’illuminato politico europeista minacciando lo “sprofondamento in Africa” del’Italia qualora uscisse dall’eurozona, non evocherebbe mai il Gruppo di Visegrád come gehenna degli euro-dannati. Bisogna dunque fare in modo che i buonisti prendano a odiare l’Africa, con quella ipocrisia e frustrazione di cui solo loro sono capaci: qualora l’Etiopia e il Kenya cominciassero a essere viste come Israele, la Namibia e la Somalia come la Turchia, il Sud Africa come la Polonia, l’Egitto e il Sudan come l’Ungheria (perché lì gli ungheresi ci sono davvero!), allora finalmente l’Africa potrà liberarsi dal “potere dei più buoni” e costruirsi un futuro con le proprie mani.