Cara Silvana De Mari, l’Occidente che odia se stesso tifa anche Israele

Vorrei rispondere brevemente a un articolo in favore di Israele (solo l’ultimo di una lunga serie) pubblicato da Silvana De Mari su “La Verità” di oggi lunedì 23 ottobre 2023. Le tesi principali sostenute dall’opinionista sono le seguenti: a ispirare la “ferocia” di Hamas sarebbe il Corano; Israele non agisce per rappresaglia ma per recuperare gli ostaggi e fermare l’organizzazione terroristica; la comunità internazionale dovrebbe far cadere Hamas come ha fatto con il regime di apartheid in Sudafrica, anche se quest’ultimo è stato tanto osteggiato perché perpetrato da “sudafricani bianchi dell’emisfero australe” (sic); le accuse a Israele appartengono a una “metastoria fantastica” che immagina lo stato ebraico come un’estensione (più temporale che spaziale) del colonialismo occidentale nel XXI secolo.

Lasciando per ultima la questione dell’apartheid (ché l’Autrice stessa fa parecchia confusione in merito), liquidiamo brevemente le altre osservazioni: in primis, la logica fallace (o “fallaciana”) che porta a credere che gli arabi o qualsiasi altra nazione o popolazione islamica siano motivati esclusivamente dal fondamentalismo religioso andrebbe finalmente messa da parte, specie quando si discute di Israele.

Il pregiudizio che gli ebrei siano portatori di un messaggio di tolleranza universale, oppure eredi di una qualche corrente della filosofia occidentale che dovremmo considerare più “razionale” o “illuminata” di altre, è messa in crisi sia da un’onesta disamina dei loro testi sacri (Torah e Talmud) sia, sulla breve distanza, dall’innegabile ascesa nella vita politica israeliana di gruppi e organizzazioni ispirate all’estremismo religioso.

Non è un caso che tra i motivi del suo attacco, Hamas abbia citato il pericolo della ricostruzione del cosiddetto “Terzo Tempio”: ma lungi dal rappresentare una manifestazione di “fondamentalismo islamico”, l’altra faccia della medaglia ci racconta di quanto il “fondamentalismo ebraico” stia mettendo radici nell’opinione pubblica israeliana.

In secondo luogo, è imbarazzante che la De Mari affermi che “tutto quello che sta succedendo a Gaza cesserebbe immediatamente se gli ostaggi fossero restituiti e i lanci di missili bloccati”, quando nell’ultima settimana sono emerse diverse indiscrezioni sul rifiuto ostinato delle autorità israeliane di accettare qualsiasi negoziato sugli ostaggi, come la loro liberazione in cambio di una tregua o uno scambio con dei detenuti palestinesi.

Certo, i trogloditi di Hamas passeranno pure tutto il giorno a leggere il Corano e sparare razzi, ma Israele si dimostra regolarmente incapace di agire (o anche solo pensare) da una prospettiva politica: l’obiettivo sembra sempre quello della guerra perpetua fino all’ultimo soldato (preferibilmente dall’altra parte della barricata, anche se il “mito di Masada” lascia immaginare ipotesi più apocalittiche).

E visto che Silvana De Mari stigmatizza solo la “metastoria fantastica” degli accusatori di Israele, bisogna farle notare che questo tipo di narrazioni sono condivise altresì anche dai sostenitori dello Stato ebraico, tanto che lei stessa, senza nemmeno accorgersene, imbastisce un’altra “metastoria fantastica” nel suo articolo raccontando che gli israeliani odierni sarebbero eredi (perlopiù “morali”) di quella Brigata Ebraica che si oppose ai nazisti (considerati “il male assoluto”).

Dunque una “metastoria” andrebbe bene e l’altra no: questa impostazione impedisce di ammettere in modo obiettivo che la sinistra ha qualche ragione di raccontare (o raccontarsi) la storia di Israele come una prosecuzione del colonialismo occidentale con altri mezzi, anche per motivi tutt’altro che “metastorici”, semmai storicissimi, come la liaison scoppiata nel dopoguerra tra le destre occidentali (in testa quella italiana) e quelle sioniste, il completo appaiamento di Israele alle potenze occidentali negli anni della Guerra Fredda, la natura sempre più etnocentrica dello Stato ebraico e tanti altri fattori.

Veniamo infine al Sudafrica. La De Mari fa davvero troppa confusione: da un lato paragona la “barbarie islamica” all’apartheid (invocando un intervento della comunità internazionale per boicottarla tramite una pressione diplomatica), dall’altra comunque riconduce la moral suasion contro i sudafricani bianchi all’Occidente che odia se stesso, ispirata a suo dire a “terzomondismo e pauperismo”.

Dato il guazzabuglio fatto dalla De Mari sulla questione, tanto vale affrontarla da una prospettiva più ampia, anche perché da essa a mio parere è possibile rendersi conto della “disfunzionalità” (mi si conceda il termine) di Israele sullo scacchiere internazionale. Partiamo dal fatto che il Sud Africa è stata una delle prime nazioni a riconoscere de facto Israele, nelle vesti del feldmaresciallo Jan Smuts, sionista di lunga data e amico personale del primo Presidente israeliano Chaim Weizmann.

Tale linea politica fu seguita dai successori di Smuts e addirittura nel 1953 colui che è considerato il “padrino” del regime di apartheid, Daniel François Malan, divenne il primo Presidente di una nazione del Commonwealth a visitare lo Stato ebraico. Per decenni i governi del Sud Africa fornirono non solo sostegno politico ed economico allo Stato ebraico, ma favorirono anche l’Aliyah dei numerosi ebrei presenti nel Paese, oltre ad accettare lo status di doppia nazionalità e a consentire ai propri cittadini di considerarsi “riservisti” di un’altra nazione.

Tali dimostrazioni di amicizia da parte sudafricana non impedirono però ad Israele, vista la malaparata, di tradire il proprio alleato da lì a pochi anni, con un certo sgomento da parte delle autorità sudafricane: per esempio, nel 1961 il Presidente sudafricano Hendrik Verwoerd, al cospetto dell’ennesima coltellata alle spalle di Tel Aviv, affermò apertamente che “Israele non è coerente nel suo nuovo atteggiamento anti-apartheid, hanno portato via la terra agli arabi che erano lì da mille anni”, concludendo provocatoriamente che “Israele, come il Sud Africa, è uno stato di apartheid”.

L’opposizione al Sud Africa, compresa partecipazione all’embargo, fu trasformato da Israele in un punto d’onore, anche se molti storici osservano come, specialmente dopo il 1967, non mancò una forte dose di opportunismo nella ricerca un legame con gli stati dell’Africa Nera allo scopo di sottrarli al blocco sovietico e a quello arabo. In sostanza, Israele assunse esattamente quella posizione “terzomondista” che oggi tanto indigna gli opinionisti come la De Mari.

Ingenuamente, i politici sudafricani continuarono a considerare la lotta di Israele come una battaglia contro le “potenze antioccidentali” (così sostenevano nero su bianco gli editoriali del “Die Burger”, anche alla luce dei numerosi tradimenti di Tel Aviv) e a sperare in un’alleanza strategica tripartita tra Sud Africa, Israele e Stati Uniti, che potesse salvare quello che a livello internazionale veniva già descritto come un “regime canaglia”.

Senza alludere all’impegno dei rappresentanti delle comunità ebraiche locali nel fomentare i leader della rivolta nera, col fatidico “senno di poi” si può ammettere pacificamente che il sostegno incondizionato di Tel Aviv da parte di Pretoria abbia portato tutt’altro che bene a quest’ultima. E però le varie “metastorie” ci impediscono di pensare che il famigerato Occidente non possa fare una fine simile, pena l’accusa di “antisemitismo mascherato”…

3 thoughts on “Cara Silvana De Mari, l’Occidente che odia se stesso tifa anche Israele

  1. Non riesco a capire i cattosionisti. Sono filoisraeliani a prescindere perché odiano gli islamici o per romanticismo teologico? Il talmudismo con le bombe atomiche è molto più pericoloso dell’islam.

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