A Massimo Ceccherini non va solamente riconosciuto di essere l’unico regista italiano degli anni ’90 il cui nome meriterebbe di essere tramandato ai posteri (fosse solo per Lucignolo e Faccia da Picasso), ma gli andrebbe altresì attribuito il merito di aver ricordato ai propri connazionali che i toscani non sono dei simpaticoni stile Pieraccioni o Renzi, ma dei degenerati fino alle midolla del calibro dei compagni di merende e di quel cantante innominabile che parlava solo di morti e tragedie sentimentali.
Soprattutto per quest’ultimo motivo, mi compiaccio che la polemica su una sua incauta dichiarazione riguardo ai probabili vincitori degli Oscar 2024, profferita in diretta sulla Rai, non abbia generato eccessive polemiche. Mi riferisco al fatto che il Ceccarini, intervistato da una conduttrice biondina sull’ultimo film di Matteo Garrone Io capitano (al quale ha collaborato in veste di sceneggiatore – ma quanto è eclettico?), abbia espresso il suo rammarico per la scontata vittoria di un film sull’olocausto nella categoria delle opere internazionali in gara nella kermesse cinematografica d’oltreoceano («Sappiate che il film di Garrone è il più bello della cinquina, solo che non vincerà perché vinceranno gli ebrei. Quelli vincono sempre»).
Ceccherini si è dovuto scusare in ogni modo, dichiarando che il suo intento era di ironizzare sui contenuti del film e non di alludere a qualche fantomatico “complotto ebraico” (considerando peraltro che Io Capitano è distribuito negli Stati Uniti dal Cohen Media Group):
«Mi sono spiegato male. Io intendevo il film degli ebrei, l’argomento. Non è la prima volta che un lungometraggio con quel tema si porta a casa una vittoria. Posso chiedere scusa se qualcuno ha capito male».
Vediamo di fare un po’ di chiarezza su tutta la faccenda (anche per gli storici del futuro che dovranno parlare di Ceccherini): la battuta si capiva benissimo, ma chiaramente non appena qualcuno dice “ebrei” le reazioni isteriche si sprecano, in particolar modo nei periodi in cui Israele deve convincere l’Occidente che lo sterminio dei palestinesi è necessario per evitare quello degli ebrei.
Se però vogliamo dare una lettura più profonda del senso della “sparata” dell’artista fiorentino, allora si può pensare che egli volesse forse polemizzare anche con la “feticizzazione” delle vittime del passato che impedisce di celebrare le vittime attuali, le quali dalla sua prospettiva sono i migranti.
A tal proposito mi pare cada a pennello una recente vignetta del fumettista Tatsuya Ishida, che ha immaginato una premiazione agli Oscar per la categoria “Vittima dell’Anno”, con gli ebrei che per l’appunto vincan sempre anche al cospetto di neri, trans e immigrati musulmani.
Victim of the Year pic.twitter.com/DjEC2RPb2k
— Tatsuya Ishida (@TatsuyaIshida9) March 20, 2024
Ciò che intendo dire che la questione non riguarda né l’antisemitismo né l’antisionismo (o l’antisemitismo mascherato da antisionismo ecc), ma la rivalità mimetica tra due forme di vittimismo, che intrattengono un rapporto enigmatico e chiasmatico, nella misura in cui gli ebrei hanno bisogno di pensarsi come la rappresentazione assoluta del “martire” nella forma universale e metastorica della sofferenza dell’umanità, ma nel momento in cui devono calarsi nella realtà storica sono costretti a stabilire una gerarchia con le altre vittime (le donne, gli afroamericani, gli omosessuali, i transessuali, i migranti, i palestinesi, i curdi, gli zingari, i nativi americani, i disabili ecc…), ponendosi naturalmente in cima a essa.
Tale dinamica, per quanto possa apparire paradossale, condanna gli ebrei a trasformare ogni loro “vittoria” in una sconfitta: si pensi sia alla storia dello Stato d’Israele sia, per restare in tema, al successo della cinematografica olocaustica hollywoodiana, che ha visto nella pellicola anglo-polacca La zona d’interesse (proprio quella su cui polemizzava il “Cecca”) la sua più recente espressione. Qui la vera tragedia per gli ebrei è il fatto che tale film abbia vinto effettivamente per i suoi contenuti, ma non nel senso che è ambientato in un campo di concentramento nazista, quanto che tratta un tema ormai letteralmente passato alla storia.
Rispetto al film del regista britannico Jonathan Glazer, Io Capitano, per quanto ineccepibile sotto diversi aspetti, è un’opera che trattando di un dramma ancora troppo attuale non riesce a eludere la deriva “documentaristica”, devolvendo così il proprio potenziale estetico alla tirannia del “messaggio” o della “causa”. Al contrario, un film sull’olocausto può ormai permettersi di essere un capolavoro senza l’obbligo di “insegnare” alcunché, così come un Napoleon di Ridley Scott (per rimanere in tema di cinema contemporaneo) può permettersi di essere storicamente inaccurato (oltre che smaccatamente filobritannico) ma non perdere nulla del suo valore artistico.
Gli ebrei vincan sempre, dunque, nel momento in cui perdono sempre. È la parabola di ogni loro rivoluzione fallita, che ora si sclerotizza nel monumentalismo e nella musealizzazione. Chissà se produrranno mai un film su tale dinamica…
Qual’e la differenza tra l’Olocausto e una mucca? Una mucca non la puoi mungere per 80 anni di seguito…
https://www.youtube.com/watch?v=QGwAfgGh3iA al minuto 50 Burns “io e Oskar Schindler ci assomigliamo su un sacco di cose! entrambi abbiamo delle fabbriche! entrambi abbiamo venduto armi ai nazisti! MA LE MIE FUNZIONAVANO!”