I giovani americani pronti alla diserzione di massa: che la diversità combatta pure le sue guerre

La vignetta qui sopra del grande Tatsuya Ishida esprime in maniera impeccabile il sentimento, comune a molti giovani americani, che sta affiorando sempre più marcatamente nei confronti del clima da “Terza guerra mondiale” fomentato da politici e media.

Il nuovo corso è confermato non solo dalle indiscrezioni sul crescente antisemitismo fra le truppe (frutto in verità di una campagna stampa iraniana basata su dei leak non verificati), ma soprattutto per le reazioni sorte verso il cambio di direzione propagandistico dell’establishment statunitense: infatti, dopo quasi un ventennio di spot istituzionali rivolti perlopiù all’arruolamento di ogni tipo di minoranze, specialmente quelle sessuali, che ha portato a una vera e propria “militarizzazione” dell’attivismo LGBT e alla trasformazione dell’esercito americano nel più importante datore di lavoro a livello globale di gay e transessuali, ecco ora ricomparire i “visi pallidi” nelle sempre meno credibili campagne di reclutamento

Per quanto possa essere forte il pregiudizio contro gli Stupid White Men, è un dato di fatto che molti americani abbiano poche intenzioni non solo di “Morire per Israele”, ma anche “per Washington”, essendo l’America dalla loro prospettiva un Paese che li ha traditi e umiliati in nome di uno pseudo-progressismo nel quale alla fin fine non crede nessuno.

Per citare qualche commento dai social: “Il sistema non si rivolge alla diversità quando c’è una guerra vera da combattere”; “Sanno dove andare a trovare chi è realmente in grado di combattere, ma spero che nessuno voglia sacrificare la propria vita per un governo e un esercito che li odia”; “Se noi maschi bianchi siamo una tale disgrazia per l’America, dovremmo essere lasciati in pace: la nostra presenza nell’esercito potrebbe persino minare lo sforzo bellico”; “Penso che non funzionerà, ma gli auguro che riescano a trovare sufficienti transessuali di colore per combattere le loro guerre”.

E come scrive un anonimo su 4chan, bollettino di cultura popolare d’oltreoceano (alcune espressioni sono state edulcorate):

«Nei prossimi mesi il sistema inizierà a fare marcia indietro su alcune questioni woke a causa della preoccupazione per la carenza di uomini bianchi pronti alla guerra imminente. Sanno che i loro sanguemisti [mutt] della diversità sono sleali e codardi, incapaci di vincere una guerra. Per prima cosa manderanno avanti burattini [good goys] come Joe Rogan ed Elon Musk per preparare il terreno a una colossale retromarcia.
Sono consapevoli che i maschi bianchi hanno abbandonato la società […], e che ultimamente li hanno bersagliati troppo con i deliri woke, quindi torneranno indietro quel tanto che basta nella speranza di risollevare il morale dei patrioti bianchi e mandarli a combattere in un conflitto globale. Attenzione però, perché vogliono ancora il vostro genocidio. Non fatevi ingannare dalle concessioni che il sistema tenterà di propinarvi. Vi odiano ancora profondamente, ma hanno bisogno che combattiate la loro guerra».

Mentre da un punto di vista meramente quantitativo il destino delle forze armate americane sembra segnato (dal 1987 il numero del personale in servizio attivo è diminuito del 39%), anche la stampa mainstream si sta rendendo conto dell’andazzo; non a caso Newsweek ha appena dedicato al problema un lungo editoriale, riportando i più recenti sondaggi dai quali emerge come la maggioranza degli adulti americani non sarebbe disposta ad arruolarsi se gli Stati Uniti partecipassero a un conflitto di più ampia portata:

«Un sondaggio condotto dall’istituto di ricerca Echelon Insights [subito dopo l’attacco militare di Hamas a Israele] su un campione di 1029 persone, ha rilevato che il 72% degli intervistati non sarebbe disposto a prestare servizio volontario nelle forze armate se l’America entrasse in un conflitto, rispetto al 21% che invece lo farebbe».

Un marine che si occupa di reclutamento confessa lo smarrimento:

«Stiamo finanziando due guerre, ma in realtà siamo già “sul terreno”, per esempio con i droni sopra Gaza. Quindi siamo già coinvolti in quelle guerre, e non siamo sicuri di cosa stia succedendo a Taiwan. Questo è un momento molto tumultuoso per noi, perché non sappiamo cosa succederà».

E un altro “amministratore delegato” di queste società pseudo-private di reclutamento evoca pericolosamente qualcosa come un 11 settembre quale “incentivo” a combattere:

«Se si guarda alla nostra storia, dobbiamo essere convinti a entrare in guerra. Mentre il popolo americano aveva bisogno di una ragione per sostenere l’intervento in Vietnam, la guerra in Afghanistan è stata recepita immediatamente e ha ricevuto ampio sostegno perché era accaduto qualcosa al nostro Paese».

Il settimanale, tra i fattori scoraggianti, pur annoverando le difficoltà dell’esercito ad adattarsi a un target più giovane e in generale la mancanza di spirito di sacrificio delle nuove generazioni, non può fare a meno di citare per l’appunto l’ideologia woke come principale causa di “demoralizzazione”.

Forse anche per tale motivo a nulla sembrano servire le subdole lusinghe di uno stipendio decente, della copertura sanitaria, della pensione e dei mutui agevolati per i veterani: tutte promesse che rispecchiano la pessima “qualità della vita” delle ultime generazioni, le quali non possono permettersi né un lavoro né tanto meno una casa (lasciando da parte la fottutissima questione della sanità americana).

Addirittura un reclutatore si lamenta del piano di condono dei prestiti studenteschi voluto dall’amministrazione Biden, che avrebbe tolto un’arma essenziale (sostanzialmente di ricatto) a disposizione dei militari: la possibilità per gli arruolati di farsi pagare le tasse universitarie dall’esercito (altro segnale di cosa vuol dire avere vent’anni in America).

Alla fine Newsweek riesce, come si diceva, a nominare il famigerato open secret (di Pulcinella, in italiano), citando diversi “incidenti diplomatici” dell’esercito americano addebitabili alla moda woke, come quando, lo scorso maggio la Marina ha assunto una drag queen come “ambasciatore digitale” del corpo (dei marines, s’intende),

o come quando, a luglio, l’esercito ha chiesto al maggiore “Rachel” Jones di esaltare la diversity fra i ranghi:

I vertici tirano comunque dritto, convinti che le nuove generazioni siano “molto aperte ad ogni stile di vita diverso e che sia semmai colpa dei loro genitori, “delusi” dal progressimo delle forze armate. Come afferma il CEO reclutatore di cui sopra (quello che evocava l’11 settembre), il motivo per cui vengono fatti spot con transessuali, donne lesbiche di colore e maschi bianchi con i capelli azzurri o fucsia è per dimostrare che la carriera militare non è così dura e offre tante opportunità anche a chi non rientra nei paradigmi classici del soldato americano.

Sembra tuttavia che i giovani non ne vogliano proprio sapere di paracadutarsi su Gaza per consentire che, una volta sterminati i suoi abitanti, si possano organizzare gay pride in tutte le città (o in quel che ne rimane), o sbarcare a Taiwan per impedire che Pechino vieti di nuovo l’adozione per le coppie omosessuali (perché alla fine, al di là di Israele, sembra che ormai gli americani buttino le bombe solo per quello). Che la diversità combatta pure le sue guerre.

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