L’Occidente ha ridotto l’Afghanistan a un narcostato pedofilo: riusciranno i talebani a rimettere a posto le cose?

Penso abbia stupito un po’ tutti, persino i più atlantocucchi, la reazione isterica con cui il governo degli Stati Uniti, attraverso agenzie come l’United States Institute of Peace (USIP), ha accolto il divieto di coltivazione del papavero da oppio introdotto dai talebani immediatamente dopo l’indecente dipartita dell’occupante americano.

In un’analisi pubblicata pochi mesi fa (giugno 2023) sul suo portale, l’USIP (che, ripeto, è un’agenzia governativa, per giunta fondata da Ronald Reagan del 1984) ha stigmatizzato gli “enormi danni economici e umanitari” derivanti dalla guerra alla droga talebana: guai a considerare questa iniziativa come un qualcosa di positivo, perché chi penserà ai poveri afghani? (Il pensiero è evidentemente da esprimere con lo stesso tono con cui la moglie del reverendo Lovejoy invitava a pensare ai bambini).

L’enfasi con cui l’articolo invita a mantenere la coltivazione dell’oppio per aiutare i contadini è sospetta: capisco l’umanitarismo peloso su cui l’imperialismo yankee campa ormai da decenni, ma qui si è andati davvero oltre. Non è che forse avevano ragione i complottisti, quelli che dicevano che i servizi segreti americani si sono serviti dei “signori della droga” in funzione antisovietica fino a trasformare (volontariamente o meno) il Paese in un’enorme piantagione di oppio e a costringere l’economia afghana a basarsi solo sul traffico di queste sostanze per sostenersi? O, ancora peggio, che gli Stati Uniti abbiano scelto di intervenire proprio in quel Paese perché l’eroina gli serve come arma di una guerra non convenzionale, tanto è vero che con la loro presenza la coltivazione di oppio è aumentata in modo esponenziale, per non dire del fatto che al potere siano giunti ex collaboratori della CIA pesantemente coinvolti nel narcotraffico come il fratello di Karzai?

Al di là del complottismo, tuttavia, chi volesse approfondire il tema da una fonte insospettabile (scrive per “Repubblica”!), potrebbe leggere con profitto il capitolo dedicato alla guerra in Afghanistan dal volume Guerra & Droga del giornalista Alessandro De Pascale (qui trovate ampie citazioni). Si badi che i media occidentali fino a pochi mesi fa erano tutti intenzionati a spacciare (absit iniura verbis) la menzogna propagandistica che i talebani fossero interessati a mantenere la struttura del narcostato per opportunismo, dunque certe testimonianze controcorrente hanno ancora più valore nel momento in cui provengono dal mainstream (un altro esempio è rappresentato da editoriali dello storico francese Jean-Pierre Filiu per “Le Monde” come questo).

C’è di peggio, tuttavia: se le élite occidentali considerano inopportuna la “guerra alla droga”, al contrario trovano entusiasmante una pratica ancor meno edificante (per non dire altro), il bacha bazi, una forma di prostituzione minorile maschile considerata “tradizionale” in alcune frange della società afghana. Se all’inizio dell’intervento americano il bacha bazi (che si potrebbe tradurre come “divertirsi con i ragazzini”) veniva presentato alle opinioni pubbliche occidentali come qualcosa di disgustoso (qualcuno ricorderà che nel best-seller Il cacciatore di aquiloni di Khaled Hosseini il nipote del protagonista è costretto a far da schiavo sessuale a un talebano), nel corso degli anni, complice anche -bisogna avere il coraggio di dirlo- l’attivismo delle cosiddette “minoranze sessuali”, esso è passato da una connotazione neutrale a una addirittura positiva.

Bacha Bazi a Brooklyn: anche in Occidente abbiamo iniziato a far vestire i ragazzini da donna

Da una parte, infatti, mentre ai soldati americani veniva imposto di tollerare gli stupri sui bambini commessi dagli ufficiali della polizia e dell’esercito afghano (agghiaccianti le testimonianze di un marine -poi ucciso a ventun anni proprio per la sua opposizione alle violenze– raccolte dal New York Times qualche anno fa: “Di notte sentiamo i ragazzini urlare, ma non ci è permesso intervenire”), dall’altra le agenzie culturali dalla “parte giusta” del mondo e della storia cominciavano a glamourizzare il bacha bazi attraverso, per esempio, l’ipersessualizzazione dei bambini e la promozione di spogliarelli infantili nei locali gay di Brooklyn, fino a raggiungere il culmine con lo spettacolo teatrale The Boy Who Danced on Air, una romanticizzazione della violenza sui bambini acclamato (ci mancherebbe!) dalla critica occidentale ma accolto con rabbia dagli afghani (compresi gli appartenenti alla diaspora).

Il musical pro-pedofilia, prodotto nel 2017 da Charlie Sohne e Tim Rosser (ebrei e omosessuali, giusto per ricordare), esaltato, come si diceva, dalla critica che conta (“coraggioso e bellissimo”) è divenuto oggetto di scandalo solo a metà del 2020, quando in seguito alla chiusura dei teatri per la pandemia molte produzioni finirono sulle piattaforme e così anche i “non addetti ai lavori” (si fa per dire) poterono assistere all’imbarazzante esaltazione della pedofilia come sublime espressione artistica e sentimentale.

I due autori, con una coda di paglia infinita, in seguito alle proteste decisero di far rimuovere il loro capolavoro da ogni piattaforma, pubblicare un video di scuse su Youtube e promettere di devolvere i proventi ottenuti anni prima a organizzazioni benefiche afghane. Per comprendere meglio lo scenario, mentre gli ottimati newyorchesi si spellavano le mani per la commovente storia d’amore pedo, i talebani nell’Afghanistan ancora occupato dagli americani comminavano condanne di morte ai prepetratori dei bacha bazi (che per loro è un reato).

Certo, nella maggior parte dei casi già che c’erano uccidevano carnefice e vittima, ma in una situazione del genere non si poteva andare per il sottile. Forse ora le cose cambieranno: in una situazione di legalità ristabilita, la sharia potrà essere applicata in maniera meno sommaria. Ad ogni modo, è evidente la volontà da parte dei talebani di volersi purificare dall’umanitarismo strumentale, dalla droga e dalle degenerazione: in tal senso si possono interpretare come segnali positivi non solo la guerra senza quartiere all’oppio e la reintroduzione della pena di morte per il bacha bazi, ma anche la rimozione nella Kabul liberata di un ridicolo murales dedicato a George Floyd, segno che almeno per quel Paese l’incubo pedo-narco-umanitario è forse finito.

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