Alla destra degli unni. Dieci anni di Sua Eccellenza Orbán Viktor alla guida dell’Ungheria

Nell’estate del 2019 Viktor Orbán ha incontrato a Budapest lo psicologo canadese Jordan Peterson, divenuto una celebrità della destra internettiana dopo essersi rifiutato di utilizzare il pronome “politicamente corretto” per indicare i colleghi transessuali. I due hanno discusso di immigrazione (“inutile e pericolosa”), di political correctness (già!), “invenzione di un piccolo gruppo ideologicamente motivato”, e della tendenza a minimizzare i crimini del comunismo.

Forse per capire Orbán si dovrebbe partire proprio da qui: egli è un “liberale classico” before it was cool, cioè prima che a Youtube venisse impresso un orientamento più conservatore (al di là di Peterson, ricordiamo l’enorme successo di commentatori britannici come Paul Joseph Watson e Carl “Sargon of Akkad” Benjamin).

In ogni caso, è un dato di fatto che dai dieci anni gli europeisti invochino contro il suo governo, democraticamente eletto, un bel golpe “tecnico”. La demonizzazione violenta e ingiustificata in molte occasioni ha fatto apparire il razzismo “ideologico” come una versione più mite di quello biologico: il fatto che certi archetipi siano stati utilizzati per rievocare il “ritorno degli unni” è sintomo dell’involuzione del lessico di quella parte che crede di rappresentare il non plus ultra del cosmopolitismo e dell’apertura mentale.

Si è parlato di “golpe bianco”, “autocrazia nazional-clericale” e “regime liberticida” (per fortuna non è più il 1956). Ricordo quando “Repubblica” paragonò Orbán a un nazista per le “minacce alla Banca centrale” (ecco il punto): evidentemente per molti il pericolo più grande, al di là delle chiacchiere sui diritti LGBT, è proprio «la politica protezionista e ostile al “grande capitale internazionale” (parole che alla lontana evocano Goebbels)» (Nuovo strappo ungherese. Orban minaccia la Banca centrale, “Repubblica”, 15 dicembre 2011). Anche “il manifesto” è riuscito ad esprimere preoccupazione per «l’abolizione di fatto dell’indipendenza della Banca Centrale ungherese» (Ungheria, la nuova Costituzione liberticida, populista e autoritaria, 3 dicembre 2012): giustamente neanche all’estrema sinistra potete toccare le banche.

A onor del vero, non sono stati solo i giornali dell’area progressista a denunciare i nuovi eredi di Attila: per esempio, ricordiamo gli sproloqui del Foglio (singolarmente simili a quelli de La Stampa) sul “morbo antico” magiaro:

«Già nel 1400 il re Mattia Corvino si considerava erede di Attila, sovrano degli unni, e in questo c’è anche un senso violento e malinconico di distruzione».

La stampa europea ha costruito un teorema contro il governo Orbán, contrapponendo una Mitteleuropa “magnifica e vitale” (non grazie all’UE!) ai “lupi” austro-ungarici che soffrono dell’antico morbo unno. Tuttavia la stessa ha dovuto moderare i toni quando il nuovo Attila, da minaccia universale per la democrazia, è diventato un argine “liberale” contro l’avanza dei neonazisti: seppure sempre rozza e barbarica, Fidesz rimane una componente essenziale del Partito Popolare Europeo – e anche la NATO, dopo gli exploit di Putin, è venuta a più miti consigli.

Tale paradosso si riflette, per l’appunto, nell’infinita diatriba tra il leader magiaro e il PPE: perché i popolari annunciano da anni una sua espulsione, ma poi non provvedono mai a portarla a termine? Forse perché da una parte sanno benissimo che è Orbán è una delle poche anime realmente “popolari” di quell’area e la scelta di cacciarlo sarebbe un vero e proprio regalo alla destra (che non vedrebbe l’ora di proporlo come suo uomo forte in Europa); forse perché dall’altra in fondo capiscono che anche l’europeismo ha bisogno di una sua dialettica, ché altrimenti ci si troverebbe nell’imbarazzante situazione di obbligarsi regolarmente al paradigma progressista anche in veste di conservatori (da liberale a liberal in nome dell’Europa Unita).

C’è una citazione attribuita a il buon Viktor che mi ha sempre colpito; anche se non sono riuscito a risalire all’originale (sarebbe del 2012), è comunque riportata da decine di fonti (seppur tutte anglofone): “La democrazia liberale può funzionare in Scandinavia, non per un popolo semi-asiatico come il nostro”. Anche Slavoj Žižek l’ha utilizzata, come emblema della “rivoluzione conservatrice” ungherese (all’opposto di Lenin, che lamentava “l’ignoranza semi-asiatica da cui i russi non sono ancora usciti”).

Certo esiste una dimensione oscura dell’orbanismo, che si esprime per esempio nel forte impulso dato al recupero dell’antico alfabeto ungherese accompagnato a un certo “irredentismo subliminale” dell’autocrate di Budapest; tuttavia ricordiamo anche, per citare un episodio tra i tanti, che quando ci fu da difendere le famigerate leggi “per la famiglia”, un ministro affermò che esse erano ispirate a quelle in vigore “negli Stati liberali negli anni ’50”. Anche qui, è tutta questione di dialettica: se all’estero Orbán sembra un Attila redivivo, in patria è considerato qualcosa di più che un bravo amministratore. Dubito che l’ungherese medio potrebbe considerarlo non dico accostabile a un Putin o a un Erdoğan, ma anche a un Salvini o a una Le Pen.

Visto che lo abbiamo evocato, aggiungiamo che non è stato casuale che alla kermesse populista organizzata dal leader leghista nel 2019 a Milano non abbia partecipato alcun politico ungherese: Orbán ha sempre preferito incontrare Salvini personalmente, considerandolo più un’evoluzione del centro-destra berlusconiano “in tempi interessanti” che non il protagonista di una nuova era politica. Gli italiani fraintendono puntualmente Orbán anche per questo: a “destra” lo considerano un vero duro che mai farebbe foto con gattini e Nutella; a “sinistra”, l’eminenza grigia dell’ondata nera che travolgerà l’Europa (ma persino un critico spietato come il compianto Giorgio Pressburger provò a spiegare il “centrismo” del suo connazionale a quelli del “Corriere”).

Eppure abbiamo notato che anche il Miniszterelnök non disdegna di farsi ritrarre in pose “informali”, in veste di calciatore o cuoco improvvisato.

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77. Elkészült // 77. It’s ready

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Se però “lo stile è l’uomo”, riconosciamo una qualche finesse persino alla versione plebea del Grande Ungherese nel momento in cui, per esempio, invia allo stesso Salvini un messaggio con un Nokia preistorico (“Quello che usano i pusher”, ha commentato qualcuno):

Your fight is a good fight. We are with you, Matteo! Matteo Salvini

Gepostet von Orbán Viktor am Dienstag, 26. Mai 2020

 

Una scelta singolare, quasi a voler esprimere la consapevolezza, in quanto “spacciatore di valori tradizionali”, di non poter mai “dormire sugli allori”. Anche questa fa parte delle caratteristiche di un vero leader. Nel bene e nel male c’è molto da imparare, dal decennio orbaniano.

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